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Un certo capitano Batiste, o Eltriste

Come ho raccontato l’altro giorno, ho finito da poco la raccolta completa dei sette romanzi dedicati da Pérez-Reverte al suo personaggio più famoso, il capitano Alatriste. Avevo letto il primo romanzo della serie molti anni fa, trovandolo un interessante racconto di cappa e spada di taglio molto moderno e certamente più realistico dei classici del genere come I tre moschettieri o Scaramouche. Ho ripreso in mano la serie, oltre che per esercitarmi nello spagnolo, per verificare i ricordi del tempo e perché sapevo che il personaggio aveva avuto una serie di avventure successive che avevo la curiosità di verificare. Per la verità, ho iniziato la lettura addirittura nel 2023 (c’è un vecchio articolo che lo segnala), poi ho lasciato a metà il rimo romanzo e quando ho ripreso ho deciso che avrei letto tutta la serie, che ho trovato in una bella edizione in digitale.

La seconda lettura, fatta in questo modo, ha precisato alcune delle impressioni del primo momento – in particolare riguardo a quelli che nell’articolo citato sopra parlavo di giri turistici. In parte dipende dal fatto che i romanzi erano preceduti da una lunga (e davvero ricchissima e molto interessante) introduzione di Alberto Montaner, docente di letteratura spagnola a Saragozza, e da una prefazione di Pérez-Reverte stesso. Leggendole mi sono reso conto che quella che avevo creduto fosse pura osservanza degli stilemi del genere – ero influenzato dal confronto con il Conan Doyle di Sir Nigel e The White Company – in realtà è una scelta più profonda, direi politica: Pérez-Reverte vuole (ri)presentare al pubblico il momento più glorioso della storia della Spagna, per illustrare in particolare alle giovani generazioni la storia gloriosa del paese e resuscitare l’orgoglio nazionale.

Parentesi: nell’introduzione di Montaner a un certo punto ci si prende la briga di dimostrare che Pérez-Reverte non è un franchista; l’argomentazione, proposta con molta forza, tende a collidere con le stesse parole di Pérez-Reverte che cita, e alla fine il lettore rimane dell’idea che magari franchista no, ma un nazionalista conservatore piuttosto di destra, mmmh.

Che il tipo di approccio alla narrazione della storia spagnola scelto da Pérez-Reverte consegua i suoi obiettivi è, per dir la verità, dubbio, nel senso che tutti sanno benissimo che quel siglo de oro si è dissolto nella vergogna non molti anni dopo e che i semi della dissoluzione erano già ben presenti nel periodo in cui sono ambientate le storie di Alatriste, quindi Pérez-Reverte è costretto continuamente a acrobazie non da poco e a gestire il passaggio ricorrente fra orgoglio e malinconia; la risoluzione del contrasto funziona meglio quando si fa lirismo dolente o ricordo affettuoso di personaggi e situazioni, meno bene quando si affida al machismo dell’esaltazione dei tercios che passano feroci e invincibili di battaglia in battaglia, dissanguandosi e dissanguando il paese in interminabili guerre, finché non cadono tutti sempre volgendo la fronte al nemico e masticando l’ultima orgogliosa bestemmia eccetera.

Oddio, quando dico che che Pérez-Reverte non riesce a raggiungere l’obiettivo intendo quello di risvegliare l’orgoglio nazionale, perché l’obiettivo di fare storia, o perlomeno di interessare alla storia della Spagna nel ‘600, almeno con me è stato raggiunto (vedo anche che i libri hanno avuto, in Spagna, una carriera come testi scolastici, con mappe, introduzioni e note e così via). Mi è venuta voglia, per esempio, di leggere Francisco de Quevedo (che è un quasi co-protagonista) e di riprendere in mano Lope, mi sono chiesto se non dovessi conoscere meglio Velazquez e i suoi contemporanei, oppure mi sono sentito inadeguato nella mia conoscenza degli avvenimenti storici e sono andato a documentarmi, così come, per alcune cose, ho sentito il bisogno di rivedere ogni tanto pezzi della carta geografica d’Europa. In una qualche misura credo che siano reazioni che capitano anche al lettore più spensierato e distratto o, quanto meno, ricorderà Breda o l’Inquisizione, la vita sulle galee o il teatro. la pittura barocca spagnola o la fastosità della Corte.

Il problema, casomai, è che a un certo punto la dimensione di ricostruzione storica sembra prendere la mano a Pérez-Reverte, e la serie un po’ si sgonfia.

Il primo romanzo è perfetto: traccia l’ambiente e i personaggi, introduce il registro verista e l’idea di un romanzo di cappa e spada crudo e senza orpelli, fissa il tema del siglo de oro e di quel che ne è rimasto (o non è rimasto). Ha uno sviluppo epico-picaresco e una conclusione estremamente accattivante: meccanismo della trama, scrittura e personaggi lavorano in perfetto accordo.

Nei quattro romanzi successivi una serie di temi presenti nel primo sono via via sviluppati: il rapporto fra il capitano e il suo giovane protetto Iñigo, che è anche la voce narrante, il ruolo di un villain ricorrente, Luis de Alquézar, aiutato da un alter ego malvagio di Alatriste, lo spadaccino italiano Gualterio Malatesta, il rapporto fra la nipote di Alquézar, Angelica, e Iñigo, che se ne è perdutamente innamorato, l’approfondimento di una serie di altri personaggi ricorrenti e il gusto per la poesia dell’epoca, non solo quella di Quevedo, che fa da “colonna sonora” del testo. Nel frattempo il lettore si rende conto che Pérez-Reverte sta procedendo metodicamente, dedicando ciascun romanzo a un aspetto della società spagnola dell’epoca: i processi dell’Inquisizione e l’ossessione per la purezza di sangue (Limpieza de sangre), le guerre di Fiandra (El sol de Breda), l’afflusso dei metalli preziosi dal Nuovo Mondo (El oro del Rey), il teatro (El caballero del jubón amarillo).

Man mano, però, il meccanismo narrativo si riduce, si sclerotizza, e alla fine sembra non essere più così importante: è già evidente ne El sol de Breda, nei successivi la tendenza è più o meno marcata, negli ultimi due romanzi, dedicati rispettivamente alla guerra navale nel Mediterraneo orientale e alle mene politiche della Spagna in Italia, ci sono battaglie, duelli e avventure, ma non succede veramente niente fino allo scioglimento finale che Pérez-Reverte ha aspettato pazientemente di poter far scattare: in Corsarios de Levante la battaglia navale, epica e lunghissima, è certo soddisfacente e risolve anche il contrasto creato in precedenza fra due dei personaggi principali, ne Il puente de los asesinos non c’è nemmeno quello. So che fra pochi giorni esce Misión en París e sono curioso di vedere se la tendenza è confermata (peraltro temo fortemente il pastiche e il duello con D’Artagnan).

In realtà questo tipo di parabola è legato a un altro meccanismo, che è quello che romanzo dopo romanzo Iñigo cresce d’età e essendo voce narrante man mano prende spazio non da osservatore ma da co-protagonista: ma non è un personaggio in grado di reggere la serie e quanto più spazio prende tanto più il capitano – coi suoi rovelli, la sua morale disperata, il suo cinismo venato di malinconia – tende a diventare oggetto di osservazione e non soggetto.

Dove la serie mantiene costantemente un motivo di interesse, a parte l’ambientazione, è nella folla di comprimari e personaggi ricorrenti – Quevedo spicca, ma ce ne sono molti altri. Ed è interessante che ciascuno dei due protagonisti, Alatriste e Iñigo, abbia un nemico giurato col quale ha però un rapporto quasi di co-dipendenza: cioè, rispettivamente, Malatesta e Angelica de Alquézar. Detto questo, letterariamente non funzionano allo stesso modo e, paradossalmente, quello fra Alatriste e Malatesta è molto più sfaccettato – il capitano non lo uccide quando può e cerca di ucciderlo quando non deve – di quello fra Iñigo e Angelica.

In questo secondo rapporto lui è un giovane ingenuo, anche dopo che è cresciuto e ha frequentato bordelli e taverne di mezza Europa, mentre Angelica è una classica black lady perversa e l’incarnazione della donna dolcezza e veleno a un tempo, mistero e accoglienza, quelle cose che gli adolescenti maschi si narrano attorno al fuoco dall’alba dei tempi e che infatti sono la base di innumerevoli stereotipi dei racconti d’avventura; è spesso scritta benissimo, per carità, ma certe volte tocca infilarla a forza nella trama, come il possiede delle sorellastre nella scarpetta di Cenerentola: in Limpieza de sangre e una bambina che compie con spensieratezza agghiacciante un atto di pura malvagità, da giovane donna ne El caballero del jubón amarillo le sue azioni sfidano ogni comprensione razionale e rendono forzato lo sviluppo della trama.

Cercando la conclusione all’articolo, mi sono chiesto cosa risponderei alla domanda se consigliare o meno la serie: boh, chissà? Il primo romanzo è un divertito classico dell’avventura contemporanea, e si consiglia senz’altro. I successivi richiedono un interesse che vada oltre il singolo romanzo e sia, ecco, per che cosa? Per il genere, certo, oppure per il costume, per la mise-en-scene, per il gusto nel viaggio nel tempo: c’è un gran numero di lettori potenziali, mi pare. E d’altra parte se uno o una arriva con piacere al terzo romanzo, poi per forza li deve leggere tutti, perché alla fine conta quel che succede ai personaggi, e non le trame e le avventure: alla fine de El sol de Breda scopriamo che Iñigo e Angelica sono amanti, si suppone senza che lei tenti di pugnalarlo dopo ogni amplesso, e immagino che molti lettori vogliano sapere come ci si arriva (disclaimer: al momento lo sa solo Pérez-Reverte, io no).

In realtà, c’è un altro tema, più letterario: il genere dell’avventura classica (cappa e spada, esplorazione, vicende storiche), un tempo dominante, è diventato dalla seconda metà del secolo scorso più di nicchia, sebbene continui ad avere un largo seguito e alcuni maestri riconosciuti (in questo blog si è parlato anche di Cornwell – dovrei decidermi una volta a recensire la serie dedicata da Christian Cameron a sir John Gold). Pérez-Reverte è uno di questi e il modo con cui ha rivitalizzato il genere in lingua spagnola, attraverso una serie di mezzi letterari e con una impostazione politica ed estetica che ha incontrato un gran numero di persone: cercare di capire come abbia fatto è un lavoro forse non necessario ma certo non ozioso.

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