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Il rischio reputazionale di Nigel Farage

Il mio amico Domenico Licheri, fidato spacciatore di notizie d’oltre Manica, mi segnala un articolo del Guardian dedicato alla vicenda della chiusura del conto di Nigel Farage da parte della banca Coutts.

Dato che si tratta di una vicenda molto inglese, forse è utile riassumerla. Immagino che tutti sappiano che Nigel Farage è stato uno dei leader della Brexit e a capo del partito di destra, nazionalista e razzista, UKIP. Per diversi anni ha avuto il suo conto alla banca Coutts, una antica e venerabile banca di investimento inglese – per dire, la banca della famiglia reale – finché a giugno scorso la banca, con una asettica letterina, gli ha comunicato che avrebbe chiuso il suo conto.

Farage ha gridato subito allo scandalo, dichiarando che si trattava di un tentativo dell’establishment inglese di fargliela pagare per la sua attività politica e, con una serie di richieste di esibizione di documenti, ha trovato modo di dimostrare che, dal suo punto di vista, le cose stavano davvero così: perché i verbali interni alla banca definiscono l’avere Farage come cliente un «rischio reputazionale». Riporta l’articolo del Guardian che una nota interna riferisce: «Il comitato [l’organo interno della banca destinato a decidere se mantenere i clienti o meno, NdRufus] non ha ritenuto che continuare a offrire servizi bancari a NF [Nigel Farage] fosse compatibile con Coutts date le sue posizioni pubbliche che sono in contrasto con la nostra posizione di organizzazione inclusiva».

Il contrasto, a questo punto, è diventato una lite politica generale, con diversi componenti del governo conservatore inglese, a partire dal Primo Ministro Rishi Sunak, che hanno definito la posizione della banca illiberale e in nome della libertà di parola hanno invocato la creazione di regole più stringenti che impediscano questo tipo di pratiche, diciamo discriminatorie, da parte delle banche.

Sorprendentemente, l’articolo del Guardian (l’autore è un redattore permanente, non un editorialista ospite), segue questa linea, sia pure con un po’ di moderazione; da una parte scrive che: «Siamo davvero d’accordo con l’idea di un comitato bancario che emette giudizi di inclusività sui clienti senza poi spiegare le proprie decisioni? È sicuramente possibile essere profondamente in disaccordo con le opinioni di Farage sulla maggior parte degli argomenti e trovare la posizione di Coutts illiberale in maniera allarmante». Successivamente, con qualche ondeggiamento, l’articolo precisa la propria posizione: il punto non è tanto che Coutts decida di non servire più Farage, quanto che enunci in maniera chiara e trasparente chi vuol servire e chi no, e motivi in ogni caso la sua decisione – una posizione apparentemente condivisibile ma in realtà non precisamente praticabilissima, dato che potenzialmente apre il campo a controversie giudiziarie di tutti i tipi.

Per un socio di Banca Etica (ovviamente parlo a titolo del tutto personale) devo dire che il caso è molto interessante. Intanto, in realtà non è in questione la bancabilità di Nigel Farage o il suo diritto di accesso al credito (secondo la finanza etica, il credito è un diritto umano): Coutts non l’ha lasciato a piedi, gli ha semplicemente proposto di passare alla sua “normale” consociata commerciale, dove avrebbe avuto sia un conto corrente personale che uno professionale. È chiaro che in quella banca non avrebbe avuto diritto ai servizi (e probabilmente alla riservatezza) di una banca per VIP, ma quello non è un diritto.

La parte interessante, comunque, riguarda l’approccio alla tutela della propria reputazione, che per un agente commerciale è anch’esso un diritto (ne avevo scritto a suo tempo per uno strano caso) e che per le banche è ulteriormente connesso alla tutela della propria affidabilità – ha ragione il Guardian quando dice che poi magari ci sono banche a cui va bene se uno ha posizioni inclusive anche se poi fa riciclaggio di denaro, ma questo è un po’ prendersela con l’uomo di paglia; certo a Banca Etica avere Nigel Farage come proprio cliente farebbe un pochino problema, posto che probabilmente immediatamente un’altra parte della clientela chiuderebbe i propri conti.

Tutte le scelte etiche in campo economico sono basate, al fondo, su idee di discriminazione. Per dire, il commercio equo compra il caffè solo da certi, non da tutti; le banche etiche finanziano solo certi, eccetera. La cosa non ha mai fatto problema perché era evidente per tutti che si trattava di discriminazioni positive che avevano lo scopo di creare maggiore giustizia sociale, non meno, dando per scontato che il sistema è in ogni caso configurato per escludere certa gente: è bello che il Guardian caschi dal pero lamentando che i comitati bancari diano giudizi sui clienti, ma se non fosse sempre stato così i movimenti cooperativi, i socialisti eccetera non avrebbero avuto bisogno di creare le banche cooperative, le casse di risparmio, le piccole banche locali. Questo, e la presenza di una serie di salvaguardie sociali – i locali commerciali, per esempio, non possono discriminare la clientela, né possono farlo i servizi pubblici che sono per definizione rivolti a tutti e nemmeno chi opera in regime di monopolio.

Il punto è che nell’attuale clima di guerra culturale e di scomuniche reciproche, di privatizzazione dei servizi, di green-social-pinkwashing che porta realtà che non si sono mai preoccupate di nulla a essere tanto tanto consapevoli di chissà cosa, questa dimensione molto materiale che distingue le discriminazioni positive da quelle negative finisce per perdersi, distrutta dalla frammentazione delle scelte e etiche e da meccanismi polemici da specchio riflesso: se tu chiudi il conto a Nigel Farage io ho diritto a chiuderlo a un migrante, se tu lanci il boicottaggio contro la fabbrica di armi io allora voglio che si boicotti anche la casa editrice che pubblica testi di storia militare, non invitare un autore nella mia trasmissione è equivalente a impedire che un autore sia pubblicato ovunque, e così via.

Questo crea anche interessanti schizofrenie: per esempio i conservatori americani gridano vittoria per una sentenza della Corte Suprema (per altro su un caso del tutto inventato) che permette di non avere come clienti due gay in nome della libertà religiosa, perché così si potranno non fare entrare più i negri nel bar e sarà comodo reintrodurre la segregazione razziale, mentre i conservatori inglesi vogliono regolamentare le banche perché non possano, in nome delle proprie opinioni, chiudere il conto a nessuno (quindi neppure alle persone di colore, immagino, se non fosse che, ops, magari quelle non raggiungono il reddito e quindi siamo a posto lo stesso).

Devo dire che ho sempre pensato che i conservatori inglesi siano molto più furbi di quelli americani (il che comunque non fissa molto in alto l’asticella): al turbocapitalismo è molto più comoda l’uniformità imposta per legge che annulla le scelte etiche in nome di uguaglianze di facciata e valori enunciati e mai innervati nelle reali differenze di potere. Quello che è sorprendente, però, è che in entrambi i casi manchi all’opposizione – parlo di quella politica, specificamente – l’individuazione di una posizione intermedia che lasci il campo puramente ideologico per scendere sul terreno pratico della tutela della libertà personale, della possibilità materiale dell’esercizio dei diritti e delle scelte di vita.

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