La parentesi spagnola
L’anno scorso il gruppo dei soci della Sardegna meridionale di Banca Popolare Etica ha fatto un gemellaggio coi soci andalusi, e fra le altre cose siamo andati alcuni giorni a Granada.
Abbiamo incontrato realtà dell’economa sociale locale (alcune straordinarie), abbiamo fatto un po’ di turismo – l’Alhambra è uno dei posti più indescrivibili che abbia mai visto, la sensazione di mettere piede in un luogo in un certo senso alieno come ce ne deve essere solo una manciata al mondo – e in generale siamo andati in giro, tanto più che siamo capitati durante la feria, la grande festa patronale locale. Durante i nostri vagabondaggi e le varie chiacchiere con i locali, complice anche la festa, c’erano un sacco di cose che ci parlavano di Sardegna, la scoperta di elementi comuni ricorrenti e, anche, la scoperta di elementi sì comuni ma anche differenziati: mi ha molto colpito quanto Sant’Efisio debba alla cultura spagnola, ma ho anche ringraziato il cielo che la nostra sia una festa allegra e accogliente e non una cupa processione con catafalco e marcia funebre – mi perdoneranno gli amici andalusi – in cui sembra che da un momento all’altro si debba iniziare a distribuire cilici e flagelli anche per gli spettatori.
Al massimo a Sant’Efisio si distribuiscono pardule, e c’è tutta la differenza del mondo.
Ma divago. All’epoca ho pensato che tutti sappiamo che l’influsso culturale prima aragonese e poi spagnolo è evidentemente presente in Sardegna, ma che magari teniamo questa consapevolezza ai margini della coscienza, chissà perché (vedo qui sul blog che in realtà quando parlo di Sardegna questo è un tema ricorrente, in realtà), e che quindi, quando siamo messi direttamente di fronte alle radici, la cosa ci colpisce di più.
Dalla visita a Granada in poi talvolta mi è capitato di notare qualche altra comunanza, magari su cose che consideriamo assolutamente, caratteristicamente, indubitabilmente sarde, e di pensare: «Bah bah, anche questa ce la siamo giocata. Non è sarda, è spagnola», un pensiero esattamente al contrario della storia dei famosi biscotti di Fonni che in realtà sono di Orani.
Naturalmente ci sarà un certo numero di patrioti che saranno prontissimi a replicare che questo vuol dire che gli antichi sardi avevano conquistato la Spagna, magari sulla strada verso la scoperta dell’America, e perciò va bene così.
Ma divago ancora. Il fatto è che sto leggendo Nueva historia del tango di Héctor Benedetti (devo dire che casualmente al momento sto leggendo solo in spagnolo, oltre Benedetti anche il ciclo del Capitano Alatriste di Pérez-Reverte) e nei primi capitoli, quando racconta dei progenitori del tango, parla dei payadores e delle gare poetiche, e sembra, davvero, davvero, davvero, la cantata campidanese.
E anche questa c e la siamo giocata, appunto. Poi, oh, magari non è proprio così, e le tenzoni poetiche c’erano magari dai tempi dei Romani e c’è pure tutta la tradizione dell’ottava rima toscana e quindi, insomma, andiamoci piano, o forse anche no: vedo che c’è tutta una letteratura accademica sull’argomento, e ho messo qualcosa in lista dei desideri.
Però è anche vero che a un certo punto racconta delle orchestrine/cori di studenti che in spagnolo si chiamano estudiantine, e io mi sono ricordato che l’istudiantina a Seneghe è un canto a tenore di argomento profano, e non è possibile che non ci sia una derivazione, quanto meno nel linguaggio.
Ma non è di questo, in realtà, che volevo parlare, quanto tornare sul fatto che questa ricchezza di legami e questa importantissima componente spagnola della nostra cultura sia, tolti pochi ambiti accademici, del tutto ai margini del discorso pubblico e della consapevolezza comune e questo, sono giunto a pensare in questo periodo, mina il dibattito sulla nostra identità.
Il periodo della dominazione spagnola…
… già, anche la scelta della denominazione storica è interessante: perché dominazione indica una alterità, i dominatori e i dominati che poi si sono emancipati, quando a naso – non è esattamente il mio periodo di riferimento, quindi mi espongo alla berlina – è probabile che, diciamo, nel ‘500 e ‘600 i sardi fossero, complessivamente, spagnoli senza la necessità di troppi aggettivi (detto in altro modo, mentre Cromwell massacrava gli irlandesi, maledetti papisti, in Sardegna i torbidi erano legati a rivalità interne alla nobiltà spagnola).
So già che c’è un patriota pronto a ricordarmi che la Sardegna aveva un viceré e proprie istituzioni – a parte che sono istituzioni spagnole (con la notevole eccezione della Carta de Logu) non sto parlando di quello – dentro la corona spagnola c’erano un sacco di sistemi politici autonomi, quello che mi chiedo è se il sostrato medievale desse alla Sardegna una identità non-spagnola più evidente, poniamo, del regno valenciano o di altre parti europee dell’impero che ci verrebbe da definire spagnole senza tante storie.
Ma, dicevo, il periodo della dominazione spagnola, nella nostra percezione, è una curiosa parentesi di scarso interesse fra la gloriosa epoca di Eleonora (quando eravamo sardi-sardi, certo, come no) e il tristo pervenire dei Savoia (cioè da quando dobbiamo datare l’inizio della necessità di autodeterminarci dall’oppressore italiota). È evidente che non è proprio così.
Non è un’eclissi casuale: per lo Stato piemontese l’eredità spagnola era ingombrante e pericolosa – per diverso tempo ci furono preoccupazioni che l’isola potesse tornare nell’orbita politica spagnola, e per gli storici sardi ottocenteschi il passato spagnolo era inutile, sia per il processo di accreditamento della borghesia isolana nel nuovo sistema politico a matrice italiana, sia per la creazione di mitologie patriottiche adatte al clima risorgimentale: alle vicende di fedeltà a una corona spagnola straniera meglio sostituire la resistenza primigenia dei Giudicati all’invasore: invasore non tedesco come per i liberi Comuni lombardi e quindi meno utile per simboleggiare gli Austriaci, ma comunque adatto per affibbiargli un po’ di tratti borbonici. Per dirla con le parole di uno storico vero:
L’antispagnolismo è stato, nel corso dell’Ottocento non solo italiano, un potente mito negativo di fondazione nazionale […]. Dovunque ha agito nel corso dell’Ottocento il trinomio patria – nazione – libertà, è stata ricorrente l’equivalenza Spagna – malgoverno – oppressione – oscurantismo. Ed è stato anche facile vedere nel dominio spagnolo l’antecedente di contemporanei domini stranieri, come ad esempio quello austriaco, su altri paesi europei in lotta per la loro autodeterminazione e indipendenza.
Aurelio Musi, in Mediterranea n. 4, 2005
Mi viene in mente, adesso, che curiosamente agli inizi del sardismo – e nel ‘900 con tutta l’idea balzana, con rispetto parlando, della costante resistenziale – si pesca a piene mani in questa mitologia, la cui origine era di segno esattamente contrario e cioè unionista – del resto un po’ di confusione doveva esserci anche prima: nella casa di mio bisnonno, fondatore in gioventù di giornali mazziniani, campeggiavano i ritratti di Garibaldi da un lato e di Eleonora dall’altro – ma in fondo in queste confusioni noi sardi non siamo stati soli se il mito risorgimentale e unitario di Alberico da Giussano poi è diventato la bandiera del separatismo della Lega: il nazionalismo finisce sempre per generare mostri, sotto i nuraghe come a Pontida.
Ma continuo a divagare. Quel che volevo dire, in fondo, è questo: che considerarci un po’ (più) spagnoli aiuterebbe. Aiuterebbe nei discorsi sulla lingua, spogliandola di un’aura di specialità e di localismo che non aiuta; aiuterebbe nella riflessione culturale: la comprensione di una pluralità di radici vuol dire la possibilità di una maggiore ricchezza; aiuterebbe, evidentemente, nel discorso identitario, fornendo una percezione più precisa del gioco di influssi e persistenze che costituisce ciò di cui siamo fatti; aiuterebbe a costruire un’idea di Sardegna più mediterranea e al fondo più europea, togliendoci dal confronto ossessivo con la sponda orientale di fronte a noi e ricordandoci che ci sono state e ci sono ancora altre sponde, a ovest ma anche a sud e a nord.
È tutta roba che non piacerebbe ai patrioti, peraltro, ma ce ne potremmo fare tranquillamente una ragione.