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L’altra altra metà del cielo

Molti anni fa, quando ero vicepresidente del Settore giovani di AC, organizzai una giornata di formazione per adolescenti sui temi, più o meno, della sessualità, e preparai le cose in modo che ci fossero momenti di discussione separati per giovanissimi e giovanissime (14-17 anni, sostanzialmente).

Oh, ho usato la prima persona singolare perché ricordo benissimo che nell’architettura di quel percorso formativo c’era parecchio di mia mano personale, ma ovviamente c’era tutta una équipe di lavoro – molto brava, fra l’altro – quindi non voglio accampare troppo protagonismo. Se lo riferisco facendo ricorso all’io è perché ricordo che ci fu una certa resistenza alla separazione, non nell’équipe ma negli animatori parrocchiali, in qualche altro responsabile e anche fra i giovanissimi e le giovanissime, e io e Laura Todde che era vicepresidente con me dovemmo gettare un po’ del peso della carica sulla bilancia della discussione per tagliare corto.

Non è che dipendesse da chissà quale grande riflessione sul genere, all’epoca, certamente non nei termini di oggi e in ogni caso ce n’era poca nell’associazione, nonostante fino a relativamente pochi anni prima fosse stata divisa in rami maschili e femminili, sia giovani che adulti. Ancora una decina d’anni dopo, quando divenni vicepresidente adulti, ricordo che a un convegno nazionale ci furono presentate delle statistiche da cui si vedeva che il novanta per cento del Settore adulti era costituito da socie (le eredi dell’antica Gioventù Femminile, direi) e io chiesi a Giuseppina Paterniti che presiedeva il dibattito se questo dato non avrebbe dovuto stimolare a una riflessione di genere nell’Associazione. «In che senso, genere?», mi chiese. «Genere maschile e genere femminile», risposi dal fondo della sala. «Il genere è un’altra cosa», sentenziò, e doveva saperlo per forza, perché la prima volta che ci fu presentata, al mio primo campo nazionale giovani, ci raccontò che lei si era tolta il gusto, un giorno a Roma, di andare a discutere con le femministe, e lo disse con lo stesso tono stupito che oggi ci aspetteremmo se Crosetto andasse a una cena di pacifisti e ci raccontasse di averli trovati inaspettatamente senzienti.

Ma, come spesso mi accade, divago. L’idea della separazione fra giovanissimi e giovanissime, in realtà, derivava dalla consapevolezza che fra adolescenti maschi e femmine una discussione sulla sessualità, per quanto edulcorata potesse essere in quel contesto, volta a far emergere dubbi, tensioni, insicurezze, avesse bisogno di semplificare l’ambiente (oggi si parlerebbe, probabilmente, di contesti protetti, ma mi sembra eccessivo rispetto a quella realtà), e la presenza di adolescenti di sesso diverso, invece di semplificare, complicava. Essendosi aperta meno di vent’anni prima in associazione l’epoca della coeducazione, la scelta di dividere, anche se per un momento solo dell’incontro, andava a toccare un tabù nei responsabili e di qui la resistenza, e tuttavia sono ancora convinto che quella fosse l’impostazione giusta – per un certo numero dei giovanissimi e giovanissime la separazione, semplificando, toglieva invece un velo dietro cui camuffarsi ed evitare un argomento potenzialmente imbarazzante, e da qui la loro resistenza, e anche in questo caso la scelta era corretta.

Mi è tornato in mente quel vecchio episodio leggendo l’altro giorno un articolo sul Guardian in cui si preannunciava una trasmissione della BBC (in cinque puntate) per la quale si sono intervistati, su una serie di argomenti fra i quali eminentemente il sesso e l’educazione sentimentale, un paio di centinaia di ragazzi inglesi fra i 13 e i 19 anni. Mi ha attirato inizialmente il titolo del Guardian, Dallo scrolling compulsivo al sesso: essere un ragazzo nel 2024, ma devo dire che poi alla fine l’articolo si concentra molto più sul sesso che sullo scrolling, rivelando anche una serie di imbarazzi dell’autrice della trasmissione, che fra l’altro è anche madre di due ragazzi di quella fascia di età.

Il punto di partenza è la preoccupazione che una certa generalizzazione sui comportamenti maschili abbia finito per impattare in maniera imprevista sulla vita degli adolescenti maschi:

Vorrei chiarire assolutamente che io penso che qualunque cosa che aiuti a ridurre la violenza contro le donne. Entrambi questi movimenti [il riferimento è alla campagna MeToo e a un’altra volta a far emergere abusi e violenze a scuola, NdRufus] sono stati davvero positivi. Come le donne della mia generazione sanno fin troppo bene, prima di queste due campagne era molto difficile parlarne. Lo può essere ancora. Ma una volta che ho iniziato a parlare con altre madri dei loro figli, è stato chiaro che le discussioni riguardante le violenze sessuali li avevano intimoriti rispetto ai rapporti sessuali e alle relazioni.

Intimorire è un eufemismo. Il punto di partenza sono adolescenti che filmano la partner durante il rapporto più volte, per farle dichiarare il consenso per ogni singola fase. Al di là del valore aneddotico, sono comportamenti che se generalizzati rivelerebbero un’ansia diffusa fino a un livello patologico.

Il punto di arrivo sembra essere la sorpresa per il fatto che i ragazzi non sono, beh, stereotipicamente maschi:

Sono stata stupita dell’apertura, consapevolezza, onestà e vulnerabilità dimostrata dai ragazzi. Alcuni di loro hanno confessato che non si erano mai chiesti, prima che glielo chiedessi, «cosa vuol dire essere un uomo». o che avrebbero voluto che qualcuno ascoltasse cosa voglia dire essere un ragazzo nel 2024. Una volta che ho formulato la domanda, hanno mostrato tanta voglia di parlare. «La gente pensa che i ragazzi siano fastidiosi, viziati, disgustosi… e anche maleducati», mi ha detto uno. «Non è vero».

E un po’ mi sono chiesto (non ho ascoltato ancora le puntate, che sicuramente avranno una profondità maggiore del breve articolo del Guardian, se non si eluda il problema che una parte del disagio dei ragazzini abbia origine, anche, nel modo con cui li si guarda.

Anche con questi limiti l’articolo è molto interessante e anche provocatorio e volevo segnalarlo a genitori, educatori e altre persone che hanno a che fare con gli adolescenti. Anche le puntate della trasmissione, con l’ovvio limite della conoscenza dell’inglese, devono essere molto interessanti (non mi sono ancora avventurato).

L’ultima riflessione che facevo, dopo aver finito di leggere l’articolo, era ambivalente. Da una parte, mi veniva da pensare che, se una cosa che tutti i ragazzini intervistati unanimemente lamentano è che vorrebbero essere ascoltati di più, o meglio: avere più adulti con cui parlare, questa è l’ennesima prova del problema sociale del fatto che non ci siano più ambienti – parrocchia, associazioni, partiti, sindacati, famiglie allargate, in cui il dialogo intergenerazionale è possibile. lo prova il fatto che tutte le interviste, come nota anche l’autrice, si sono svolte in contesti in qualche modo aggregativi e legati alla presenza di un adulto: centri sportivi, scuole, istituti, centri giovanili, associazioni eccetera, in cui comunque una presenza adulta è comunque garantita: nessuno è stato intervistato dopo essere stato trovato per caso per strada. Se i ragazzini di questi ambienti lamentano l’esigenza di un dialogo con gli adulti, figuriamoci quelli che non li frequentano.

Più dialogo intergenerazionale. Ma anche: più dialogo, senza specificazioni. E questo è l’altro corno della mia riflessione: se ciò che lamentano i ragazzi sono le stereotipizzazioni di genere, il dilemma di essere stretti fra vecchie visioni di maschilità e nuove idee di apertura e sensibilità, sarei disposto a mettere la mano sul fuoco che una campagna di interviste alle adolescenti rivelerebbe preoccupazioni simili (simili, evidentemente, non vuol dire identiche). E comunque: non è un tipo di problema che si risolve parlandone solo fra maschi – o fra femmine. E mi sono chiesto, vecchio animatore che sono, se in questo caso non servirebbero spazi di discussione in cui l’identità di genere non si ignori, ma si metta un secondo fra parentesi. Se non sarebbe il caso di provare a fare formazione sull’educazione sentimentale in cui si prova a porsi obiettivi simili per tutti, indipendentemente dal genere. per esempio, se il problema non sia risolvere l’ansia da prestazione, che è tipica dell’adolescenza e che la sensibilità attuale acutizza oltre il sopportabile, e se l’ansia da prestazione non sia, tematicamente, un problema analogo per maschi e femmine e ogni altro genere.

Detto in altro modo, se dovessi oggi rifare un incontro per il Settore giovani, li dividerei ancora per genere? O forse non sarebbe opportuno, oggi, buttare sul tavolo il peso della carica per fare i momenti di discussione insieme?

Domanda interessante.

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