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Labirinti, peccati e cantori

Ho visto avantieri, nella rassegna all’aperto del cinema Odissea, il documentario L’ombra del fuco di Enrico Pau, dedicato all’incendio che ha distrutto il Montiferru nel 2021.

Nel dibattito successivo il regista diceva di essere rimasto a lungo perplesso, mentre il materiale girato gli cresceva fra le mani e diventava sempre più importante anche dal punto di vista del contenuto, nel non sapere esattamente che forma finale dargli.

La mia impressione, devo dire, è che Pau non sia riuscito a uscire per bene dal labirinto e che l’avere deciso di inzuppare il film in un liricismo sardista (o in un sardismo liricistico, non saprei bene come dire) non abbia aiutato, ma naturalmente il film ha vinto il premio del MUSE a Trento, quindi sono sicuramente io che non capisco, e pazienza.

Restano un paio di cose interessanti: i Cantores di Cuglieri, bravissimi, e la continua lettura dell’incendio come punizione dei peccati della comunità, una lettura evidentemente spontanea che il documentario si limita a registrare senza averla suggerita, e che inserisce l’episodio specifico in una dimensione quasi cosmica che è ben intonata al clima da apocalisse imminente che tutti sentiamo in sottofondo e alla pure dimensioni dell’incendio, così colossale che si fatica comprenderlo. È un’idea che solleva tante domande: perché un peccato così grande, così collettivo, così indeterminato, così confusamente sentito, finisce per essere paradossalmente autoassolutorio, nel senso che non invita a nessun diverso comportamento personale o cambio di paradigma della comunità – anche questo è molto in linea coi dilemmi ambientali che viviamo di questi tempi. Il film indaga poco questa dimensioni, preferendo scegliere un registro di rinascita della natura che rifiorisce nella primavera successiva, e tant’è: purtroppo è Pasqua quando c’è redenzione dal peccato, e non basta solo il ripetersi del ciclo delle stagioni, nel quale fatalmente si ripeterà anche il peccato (del resto, viene esattamente evocato il grande incendio precedente del 1984, dopo il quale, appunto, non si è fatto nulla).

Notevole, infine, il fatto che l’idea (giusta) che sia necessario indagare le conseguenze terribili che l’incendio ha non solo sulla vita degli umani ma di tutte le specie – vegetali e animali – della zona, sia risolta (male) facendo finta che a parlare sia la natura stessa e non umani che si immaginano cosa deve pensare la natura e le mettono in bocca le loro parole, una idea davvero bizzarra come nel monologo dell’asino, povera bestia commovente e martoriata – uno dei momenti più beceri di tutto il film.

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