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Letture poliglotte e enciclopediche

Mi sono accorto da poco che le mie letture hanno preso una china piuttosto particolare.

Il poliglotta involontario

Quest’anno ho letto in contemporanea cose in lingue diverse, in una maniera che non mi era mai capitata prima: ho finito da poco, finalmente, le avventure complete del Capitano Alatriste di Arturo Pérez-Reverte (Todo Alatriste, Aleguara/Penguin, 2016, e-book € 47,99, con una bella e dotta introduzione di Alberto Montaner e illustrazioni di Juan Mundet; l’edizione sarebbe limitata e numerata, che per un e-book non mi è chiaro cosa voglia dire); sto leggendo, con molta calma, i gialli di Léo Malet dedicati all’investigatore privato Nestor Burma (Tout Burma, L’intégrale des 28 romans, Fleuve Noir, 2012, e-book prix choc (bontà loro) € 49,99 – ho scoperto Nestor Bruma e Malet grazie ai bellissimi adattamenti a fumetti di Jacques Tardi) e in contemporanea, in inglese, sto leggendo/rileggendo in ordine le storie di Nero Wolfe scritte da Rex Stout (varie edizioni digitali, quando è possibile Bantam Books, che costano meno, o meglio ancora Random House, che fa una specie di edizione di due al prezzo di uno) e i gialli di Michael Connelly, anche questi in ordine di pubblicazione e in varie edizioni – leggerli in ordine vuol dire alternare Bosch, che è il personaggio principale di Connelly, con altri protagonisti minori.

Questo vuol dire che sto leggendo in contemporanea in inglese, spagnolo e francese – a parte tutto quello che ovviamente leggo in italiano – ed è per me un’esperienza abbastanza nuova.

Ho imparato a sbrigarmela con l’inglese, dopo studi scolastici tutto sommato superficiali, perché era una necessità se volevo godermi le cose che mi interessavano: il fantasy, i gialli, la fantascienza, i libri di storia e, ovviamente, i regolamenti e i materiali per i giochi di ruolo, tutta roba che in italiano era più o meno introvabile. Mi ricordo benissimo a diciott’anni, in un viaggio sul lago di Como di cui ho un pessimo ricordo, di essermi portato dietro un libro scolastico con sei racconti di Sherlock Holmes, per vedere se ce la facevo. Traducevo già regolamenti di boardgame, ma volevo cimentarmi con un libro vero.

Il viaggio a Como è stato un incubo per diversi motivi; l’unica cosa buona è che, durante stupidi viaggi in vaporetto alla ricerca di giardini e ville tutti uguali, ho visto che ce la facevo davvero. MI si è aperto, letteralmente, un mondo, soprattutto quando a Roma ho scoperto The Lion Bookshop e mi è capitato, tre-quattro volte l’anno, dovendomi muovere per l’Azione Cattolica, di avere la possibilità di esplorarne gli scaffali.

Internet non esisteva, ovviamente, e nemmeno Amazon: i viaggi per i campi scuola o i convegni o qualche rara vacanza vedevano accurate pianificazioni di deviazioni verso alcuni paradisi nascosti: Roma aveva ben due librerie inglesi facilmente raggiungibili da Termini e in più Stratelibri; Verona e Modena forniti negozi di giochi. Ogni movimento sul continente – e altrove – era valutato anche rispetto alla possibilità di incrociare una libreria inglese: la cosa più buffa, credo, è che all’aeroporto di Rio de Janeiro, andando verso la Giornata Mondiale della Gioventù a Buenos Aires, comprai un romanzetto fantasy a cui sono rimasto affezionatissimo ancora oggi: si vede che veramente coglievo tutte le occasioni.

Cose oggi semplicissime avevano meccanismi complessi: avevo fatto l’abbonamento a Dragon e a Dungeon (e in precedenza a White Dwarf) ma per rinnovarlo occorreva trovare il modo di andare una volta all’anno a Modena e pagare il rinnovo dell’abbonamento in contanti, oppure pagare un po’ alla cieca con strani bollettini postali. E tutto questo, fra l’altro, senza mai andare in Inghilterra: nei primi anni 2000 tornai a Londra per un fine settimana con Maria Bonaria, ci capitò di sbagliare fermata della metro e di trovarci in un qualche posto periferico dove c’era un grande negozio di libri usati a una sterlina: e io, che pure mi ero molto calmato col fantasy, ne approfittai per portare a conclusione la trilogia di Daughter of the Empire, di Raymond E. Feist e Janny Wurtz, per chiudere la storia d’amore e di potere iniziata anni prima in Magi’i of Cyador di L.E. Modesitt e per scoprire l’Assassin di Robin Hobb, Poi, in una libreria seria del centro, comprai la storia della Grande Guerra di David Stevenson.

Col tempo magari certe cose sono diventate meno avventurose e più sistematiche: durante tutto il periodo in cui ho viaggiato spesso per Banca Etica, la Feltrinelli International di Roma a due passi dalla filiale e Borri dentro Stazione Termini sono stati due riferimenti utilissimi, molto a portata di mano e visitabili con regolarità: ci ho costruito la libreria di testi storici e la ripetuta frequentazione di Jane Austen, Dickens e gli altri dell’800 inglese (grazie, Penguin).

Le mie letture sono rimaste per molti anni piuttosto alternate: di uno stesso autore leggevo indifferentemente in inglese o italiano a seconda di ciò su cui riuscivo a mettere le mani. A un certo punto, ormai credo una ventina di anni fa, il mercato editoriale italiano si è ristretto ed è anche cambiato: delle cose che mi interessavano sono scomparsi i tascabili, in favore di edizioni fatte per rapinare gli adolescenti e, comunque, molti autori erano sempre più difficili da trovare. Per di più, le traduzioni mi lasciavano sempre più insoddisfatto, e quindi mi sono dato la regola che i libri di autore inglese li avrei letti solo in lingua originale, e buona notte; il progressivo avvento del digitale ha fatto il resto, aumentando a dismisura l’offerta e le possibilità e rendendo il tutto definitivamente non più avventuroso. La grande disponibilità di testi in inglese mi ha portato spesso a preferire l’edizione inglese, piuttosto che quella italiana, di autori di lingue terze: Auerbach, per esempio, l’ho letto in inglese.

Traduttore, però, è sempre traditore. E quindi, qualche anno fa, ho deciso di provare a leggere in francese, per vedere se ce la facevo (aridaje).

Il francese l’ho studiato alle elementari e ne ricordavo i numeri fino a dieci e le canzoncine Sur le pont d’Avignon e Chevaliers de la table ronde. Però tanto è una lingua neolatina, ho pensato. Ho provato con I miserabili, e ho dovuto ripiegare sulla versione italiana. Nel 2017 ho riprovato con Il Conte di Montecristo, e l’ho letto tutto (fra l’altro oggi, scrivendo questo articolo, ho scoperto che ho lasciato negli articoli in bozza una spaesata e perplessa recensione del romanzo). Insomma, ce la facevo. Contrariamente all’inglese, però, poi non ho frequentato granché: vedo tracce del fatto che ho concepito progetti per esplorare a fondo Balzac e Zola e vedere che differenza c’è con Dickens, ma poi al massimo ho letto qualche storia di Maigret. Un paio d’anni fa ho letto senza troppi problemi una metà di Madame Bovary, decidendo che amo Flaubert, ma poi l’ho lasciato, chissà perché.

Però ce la faccio, e sono convinto che in questo modo di rapportarsi alle lingue c’è molto di psicologico: se sai che ce la puoi fare, poi diventa naturale. Per esempio da poco ho scoperto che su Play books c’è una vasta scelta di fumetti digitali, il che permette di recuperare un sacco di roba letta – o persa – su rivistine ormai introvabili, e il pensiero che fossero in lingua originale, spesso anche molto gergale, non mi ha fatto né caldo né freddo (invece avrebbe dovuto, perché le prime esperienze non sono state propriamente una passeggiata). D’altra parte lottare con un testo narrativo di cui non conosci o non indovini i tre quarti delle parole è una fatica brutale, come camminare in salita in montagna quando non sai se finirà mai: facilmente abbandoni… se non sai che ce la puoi fare (io quest’anno ho fatto un dislivello di 700 metri e ho deciso che mai più, però so che ce la posso fare).

Vale anche per lo spagnolo: ai tempi del Conte di Montecristo mi ero misurato anche con Cervantes: si vede che mi vengo gli attacchi poliglotti ogni sette anni, come le vacche magre. Sono sicuro che quando ho raccontato che visto che dovevo andare in Spagna avevo pensato di portarmi dietro il don Chisciotte (Dio, che blasé, si vede che non posso fare a meno di recitare per pubblici invisibili), mi era sembrata una cosa naturale perché sapevo che ce la potevo fare. Poi il libro è rimasto in valigia, ma nel 2023 ho letto il primo romanzo della serie di Alatriste, e quando l’autunno scorso mi è presa la voglia di leggere di storia del tango e dell’ambiente di Buenos Aires allo svoltare del secolo scorso, mi sono imbarcato nella Nueva historia del tango di Héctor Benedetti (2015, Siglo Veintiuno Editores, e-book € 7,99) senza pormi particolari problemi, perché sapevo che ce la facevo. Non era proprio così, e non lo è stato neanche per il Capitano Alatriste, almeno all’inizio – poi passa, fino al punto che un giorno che raccontavo di questa lettura e qualcuno mi ha chiesto se fosse in inglese o spagnolo ho avuto un attimo di esitazione, perché non me lo ricordavo; era diventato inconscio.

E quindi sono in un periodo poliglotta. Ho anche scoperto che una cosa che avevo sempre pensato non è vera: e cioè che se passi da un libro all’altro in lingue diverse ti va il cervello in pappa e ti perdi anche nel linguaggio comune, e magari vai al bar e dici: «Un caffé, s’il vous plait. With just a bit of cream, my dear, y un canoncito, por todos los diablos».

Per lo meno, a me non capita. Un po’ mi piacerebbe, devo dire, per recitare eccetera. Non mi sembra neanche che ottunda la sensibilità linguistico-letteraria, che tutte le scritture sembrino uguali; peraltro non mi sembra neanche che mi abbia affinato granché: leggo, e basta.

L’enciclopedico intenzionale

Non so se avete notato che diversi dei libri che ho citato sono edizioni omnibus o opere complete: il motivo, essenzialmente, è economico – la raccolta costa sempre meno, spesso molto meno della somma dei romanzi singoli – e legato al fatto che con le edizioni digitali puoi facilmente trovare queste raccolte, se lo desideri.

Una delle conseguenze della precarietà degli approvvigionamenti di libri in lingua inglese di cui ho raccontato è stato il fatto che le mie letture sono sempre state piuttosto disordinate.

Scoperto John Sandford, di cui su questo blog ho parlato con una certa frequenza, ho cercato di trovare quel che potevo di lui: e ho comprato e letto come veniva, a costo di vedere il suo detective invecchiare o ringiovanire a seconda dei casi. Non riguarda, peraltro, solo i libri in inglese: di Nero Wolfe, per dire, c’erano dei Gialli Mondadori a casa e da principio ho letto quelli che c’erano, quindi a caso; ho continuato a caso. Quando da ragazzo mi sono appassionato a Asimov ho cercato di leggere in ordine i vari cicli che mi interessavano, ma senza troppa convinzione. Oggi io e Maria Bonaria se c’è un libro che ci interessa lo ordiniamo in libreria: ai tempi, se andavi e non c’era il libro che ti interessava, probabilmente ne prendevi un altro. Autori diversissimi come Jane Austen o Chandler sono stati letti man mano che si trovavano.

Forse non è proprio così, perché ho ricordi piuttosto precisi di avere spesso consultato, da Dattena in via Sonnino, il catalogo dei libri in commercio, per sapere se il tale libro era in circolazione e poterlo ordinare; ma comunque nell’attesa intanto ti compravi un altro libro. Anche perché, fra l’altro, in questo campo di letteratura di genere non sempre era chiaro esattamente cosa tu dovessi cercare: uno dei grandi doni dei newsgroup e dei siti di appassionati è che ci trovavi le bibliografie e le collazioni dei titoli dei vari cicli; prima, cercavi l’autore e poi, oltre la copertina, scoprivi se era il seguito di qualcos’altro o un’altra cosa.

Credo che, ancora in età adulta, l’unico ciclo letterario che abbia seguito in stretto ordine siano state le avventure marinare di Aubrey/Maturin scritte da O’Brian, perché io e mamma eravamo entrambi appassionati e seguivamo con attenzione le uscite. Ma è stato un unicum.

Quindi, per tanto tempo, letture disordinate. Adesso che me lo posso permettere, mi pare che sto passando forse esageratamente dall’altra parte. Un po’ è il fastidio per un’evoluzione della trama che puoi faticare altrimenti a comprendere: per esempio, le storie di Uthred di Bebbanburg me sono lette nell’ordine, non solo perché quando ho cominciato la serie era appena iniziata e quindi ho potuto seguire le uscite con regolarità, ma anche perché l’ho interpretata, correttamente, come una sorta di romanzo unitario a puntate. Lo stesso, adesso che leggo i fumetti in digitale, per le avventure de L’Epervier (da non confondere con Le sette vite dello Sparviero) di Pellerin, un fumetto di cui ricordavo di avere letto il primo episodio tanti anni fa e che non avevo mai ritrovato e che adesso mi sono consesso nella sua interezza. In generale, se ti prendi un libro che raccoglie più romanzi, ti viene da leggerlo dall’inizio, come Alatriste o i gialli cromwelliani del Capitano Seeker.

Però, per esempio, quando ho deciso di intraprendere il ciclo di Richard Sharpe dello stesso Cornwell delle storie di Uthred, ho deciso di seguire l’ordine di pubblicazione e non quello cronologico delle storie, dato che Cornwell ha inserito man mano delle storie negli interstizi fra un ciclo narrativo e l’altro. Secondo lo stesso ordine di uscita sto leggendo le storie di Nestor Burma, scoprendo che dopo l’esordio, 120, Rue de la Gare, Malet con la massima tranquillità ha scritto altre tre o quattro romanzi ambientati nel passato del suo protagonista

Ho scoperto, in qualche modo, di essere più interessato all’evoluzione dell’autore che non del personaggio dal punto di vista dello sviluppo delle sue avventure. Ho scoperto che sia un approccio vagamente maniacale, che però certe volte dà soddisfazione: per esempio le storie di Maigret, che si potrebbero benissimo leggere in un ordine a caso (addirittura Simenon ogni tanto dimentica di avere ammazzato qualche vicecommissario a caso e lo fa ricomparire vivo e vegeto nel futuro), l’evoluzione della tecnica dell’autore è abbastanza evidente e mi ha suscitato molte riflessioni, compresa una verifica della teoria, letta da varie parti, che si possa confrontare Simenon con l’Augusto De Angelis del Commissario De Vincenzi (teoria che si è rivelata sia completamente sballata che, hmmm, molto precisa, almeno per Pietro il lettonePietr-le-Letton); vedo, fra l’altro, che dopo avere esaurito le avventure di De Vincenzi in libera circolazione ho comprato, ancora una volta, l’omnibus. Anche leggere Nero Wolfe nell’ordine permette di correggere non poco le cose che si dicono comunemente sulla combinazione deduzione-azione tipica di questi gialli, e anche di cogliere quanto ha messo Stout a perfezionare la sua formula. Altre volte, confesso, imporsi rigidamente quest’ordine fa assomigliare sospettosamente la lettura al lavoro, e non a un’attività di piacere come dovrebbe essere.

Solo che poi, magari, quei granelli di scoperte che fai e che ti danno molta soddisfazione fanno da carburante per operazioni discutibili. La lettura sistematica di tutti i libri di Connelly, per esempio, nasce da una riflessione su Sandford, e sull’idea che nei suoi romanzi periodicamente faccia capolino il sentimento diffuso della contemporaneità americana (avevo appena finito di leggere il penultimo di Sandford, Toxic Prey). E mentre poggiavo il libro, mi è venuto da chiedermi se questo fosse vero solo per Sandford o per altri – magari la maggior parte – dei più famosi giallisti americani. A naso non mi pareva, ma è un genere che ho abbandonato, o molto diminuito – anni fa e quindi non ero esattamente sicuro. Così mi è venuta, questa probabilmente effettivamente abbastanza maniacale, di prendere un altro giallista di lungo corso, cioè anche lui di quelli che hanno pubblicato un libro all’anno dagli anni ’80 in poi, e di vedere rispetto a Sandford, uscita dopo uscita, quali temi sviluppasse. Ho scelto Connelly – poteva essere Patterson, per dire – principalmente perché le sue storie sono ambientate in California e mi sembrava un contrasto interessante col Minnesota di Sandford, e poi perché il successo televisivo mi faceva pensare che i libri si trovassero facilmente.

Ho trovato dei paralleli e dei contrasti molto interessanti, però poi, quando per caso mi è capitato un romanzo in cui Bosch parla in prima persona e l’esperimento non mi sembrava fortunato, ho abbandonato l’impresa, che magari tornerà in futuro o forse no: come dice Pennac, il lettore ha diritto di smettere di leggere.

Con tutto questo, vedo che continuo a ripetere meccanismi così, un po’ enciclopedici, di lettura da capo a fondo. Per tornare ai fumetti, dopo avere scoperto che si possono comodamente leggere in digitale ho fatto, dopo qualche esitazione sul necessario sostegno alle edicole, l’abbonamento digitale a Bonelli.

Un altro mondo spalancato all’improvviso. Dopo avere spizzicato fior da fiore per un po’ , irresistibilmente sono stato attratto verso collane da leggere dall’inizio: la recente scomparsa di Gianfranco Manfredi mi ha portato a rileggere, con molto piacere, prima Volto Nascosto e poi Shangai Devil; dopo di che adesso sto rileggendo Magico Vento, che conta quasi centocinquanta episodi.

Mi è andata bene: c’era Zagor, che non ho mai letto con continuità e che mi si offriva, con oltre settecento episodi; ho resistito, ma fino a quando?

Nel frattempo, è da tanto che ho voglia di scrivere sul blog ma poi non ci riesco: se questo non è un improvviso ritorno di fiamma destinato a vita breve, di molti dei libri citati vi parlerò nei prossimi giorni.

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