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Lo zio buono

Sto leggendo, con inaspettato piacere, un libro che ha accompagnato la mia adolescenza, nel senso che la mia professoressa di italiano del liceo lo citava almeno una volta alla settimana, e cioè Mimesis di Erich Auerbach, un tomo che sin dall’aspetto (sono più di 600 pagine) e certo anche per il nome molto tedesco dell’autore evoca certamente immagini di arida e incomprensibile filosofia tedesca: invece a me sta facendo l’effetto che immagino abbia un rilassante massaggio quotidiano.

L’autodidatta in cerca di struttura

Sono arrivato a Auerbach perché l’anno scorso, dopo aver finito le lezioni di narrazione per videogame, ho deciso che volevo darmi un po’ più di struttura e imparare qualcosa di più, e Auerbach era un nome che mi era sempre rimasto impresso da trent’anni: già che c’ero, infatti, ho messo in lista d’attesa anche un altro libro sempre citato dalle mie docenti, e cioè Storia sociale dell’arte di Hauser – dopo di che mi servirà un terzo per completare la filastrocca: Auerbach, Hauser e… Qualkeduner-Altrer, oppure potrei finalmente finire Godel, Escher e Bach di Hofstadter, che attende sullo scaffale da un bel po’. In ogni caso il problema è complesso perché nella medesima lista di lettura ho messo anche qualcos’altro di critica letteraria, a partire da Il ritorno del pellirossa e Vacanze romane di Fiedler (che sembra tedesco ma è americano) e un po’ di altre cose: quando il vostro amichevole Rufus decide di darsi una struttura, sono sempre strutture molto disordinate, a quanto pare.

Vecchi zii pacati

Comunque, sto leggendo Mimesis in inglese, non tanto per sfiducia nei confronti dell’edizione Einaudi, che credo ottima, ma semplicemente perché volevo l’e-book e in italiano non l’ho trovato, e ho pensato che considerato che l’originale era in tedesco traduzione per traduzione tanto valeva leggerlo in inglese; fra l’altro mi pare anche questa un’ottima edizione, della Princeton University Press in occasione del cinquantenario della prima edizione, con una bella introduzione di Edward W. Said e in appendice, come una postfazione, Epilegomena a Mimesis, dello stesso Auerbach.

Procedo nella lettura con molta calma, più perché altre cose da fare mi distraggono che perché il testo, pur denso, sia difficile e richieda particolare attenzione: l’andamento è piano, colloquiale e, per quanto posso capire, adatto a chiunque, anche se non specialista – può darsi naturalmente che io, che sono un noto soggettone e che dopotutto un paio d’anni fa per far passare il tempo in autobus leggevo La Divina Commedia, non sia esattamente il giudice migliore, ma questa è davvero l’impressione: di parole che non conoscevo ho trovato solo paratassi, costruzione che a Auerbach piace moltissimo e di cui parla col trasporto che altri riservano a un ottimo liquore: «Aaaah, questa paratassi: invecchiata vent’anni nella tradizione delle canzoni di gesta, affinata in botti di drammi religiosi in cui prima è stato conservato a lungo Gregorio di Tours: dolce ma potente, con sentori di nocciola, cioccolato e poesia provenzale. Aaah».

A questa capacità di accoglienza del testo aggiungerei, per spiegare l’effetto in me della lettura, un riferimento: nell’introduzione Said dice che Auerbach

… comincia ogni capitolo con una lunga citazione da uno specifico testo riportato nella lingua originale, seguito immediatamente da una comoda traduzione […] dalla quale si sviluppa una dettagliata “explication de teste” dall’andamento pacato e ruminativo; e questo a sua volta diviene un insieme di memorabili commenti sul rapporto fra lo stile retorico del passo e il suo contesto socio-politico, un’impresa che a Auerbach riesce con il minimo di fatica e praticamente senza alcun riferimento accademico.

Già dall’introduzione ho pensato alla lectio: non solo perché ruminatio è un termine che viene da quella tradizione, ma perché tutto il procedimento, con quei cerchi concentrici, sembrava ricordarla. Adesso che sono piuttosto avanti confermo l’impressione e, come sa chi segue questo blog, la lectio è sempre un’attività riposante e consolatoria, anche quando mette in crisi; Mimesis è, per me, molto riposante, come l’invito a cena da un vecchio zio in pensione che, apparentemente ignaro di tutti i travagli della tua vita quotidiana, ti intrattiene a tavola con una sua passione arcana tipo, boh, la sua collezione di francobolli thailandesi sotto il patronato della Regina Vittoria e da lì, tranquillamente ma sicuramene, tesse una tela che ti avvince del tutto e nel frattempo ti spiega il senso della vita, l’universo e tutto quanto.

Perché, va detto, stiamo parlando di un vecchio zio che ha molto da dire su molte cose e la cui erudizione è sconcertante nella sua profondità: Auerbach aveva studiato in scuole d’élite e, prima di darsi agli studi letterari, aveva anche conseguito un dottorato in legge, ma la lettura di Mimesis mostra molto di più e dà pienamente ragione di un’altra cosa che scrive Said nell’introduzione:

In maniera molto diversa dall’essere l’arido studio accademico dell’origine delle parole, la filologia [romanza, NdRufus] per Auerbach e altri suoi eminenti contemporanei, come Karl Vossler, Leo Spitzer and Ernst Robert Curtius, era in effetti l’immersione in tutti i documenti scritti disponibili in una o più lingue romanze, dalla numismatica all’epigrafia, dall’analisi stilistica alle ricerche d’archivio, dalla retorica e il diritto fino a approccio onnicomprensivo alla letteratura che comprende cronache, racconti epici, sermoni, teatro, storie e saggi. […] Ora, è del tutto ovvio che un simile approccio richiede un grande ammontare di erudizione, tuttavia è anche chiaro che per il filologo romanzo tedesco dei primi anni del ventesimo secolo con la loro formidabile preparazione nelle lingue, storia, letteratura, diritto, teologia e cultura generale la mera erudizione non era sufficiente. È ovvio che non si poteva fare una lettura di base senza padroneggiare il latino, il greco, l’ebreo, il provenzale, l’italiano, il francese e lo spagnolo, oltre al tedesco e all’inglese. Né era possibile senza conoscere le tradizioni, i principali autori canonici, la politica, le istituzioni e le culture del tempo, così come, ovviamente, tutte le loro interconnesse produzioni artistiche.

Essendo nipote di una demologia che ha condiviso un’utopia simile – i grandi atlanti demologici e il tentativo disperato di catalogare quanto più possibile della cultura delle classi subalterne della società contadina prima della sua scomparsa non posso che sentirmi vicino all’eroismo di questi tentativi, pur nella consapevolezza che sono tentativi destinati, alla fine, a essere abbandonati in favore di imprese più limitate ma maneggevoli – sotto molto punti di vista – e, probabilmente, anche più immediatamente produttive. È per questo, credo, che occorre tenersi cari zii come Auerbach, che sono riusciti a lasciarci in mano opere in cui resta distillato questo tentativo di comprensione totalizzante di una disciplina e di un mondo.

Realismo, separazione di stili e l’Incarnazione

Come avrete letto, il tema del libro è la rappresentazione della realtà nella letteratura occidentale, seguendo un percorso cronologico; i vari testi che fanno da base a ogni capitolo procedono dall’antichità – il primo è un brano dell’Odissea che viene comparato con la storia biblica del sacrificio d’Isacco – attraverso la letteratura latina e, man mano, al medioevo, con brani non esattamente noti al grande pubblico (ma diversi dei quali, in ogni modo, sono bellissimi). Al momento sono arrivato a Dante che sarà, a quel che capisco, un punto di passaggio fondamentale. Come nel caso del primo capitolo spesso il brano proposto inizialmente non è in realtà quello al quale Auerbach è più interessato ma un testo alternativo, che viene presentato in un secondo momento, per contrasto.

Il tema del libro segue il dipanarsi del rapporto fra la tradizione greco-latina e l’irrompere della cultura cristiana, con le diverse contaminazioni, incarnazioni e trasposizioni dell’una nell’altra e viceversa. A questo ripetuto contrasto ne corrispondono altri due, collegati, più squisitamente stilistico-letterari: quello fra l’artificiosità dei testi, a partire dalla tradizione classica, e la spontaneità o naturalezza di testi concepiti fuori da questa tradizione. Come esempio si può prendere uno di quei passaggi tanto cari agli storici latini nei quali il condottiero, nel bel mezzo della battaglia, si mette a fare un lungo discorso: questo non impedisce che quel passaggio sia bello, o coinvolgente, o psicologicamente penetrante o storicamente rivelatore, ma è comunque artificioso. A questo contrasto ne corrisponde un secondo, di stile: uno stile alto, ricercato, sublime, destinato a temi seri, alla politica, alla storia, alla filosofia, e uno stile basso, spesso volgare o grottesco, destinato alla satira, alla commedia, all’umorismo, a ciò che non è di peso. Il problema è che questa bipartizione, già in crisi per meccanismi sociali interni alla storia imperiale, è del tutto stravolta dall’irrompere della letteratura cristiana: perché la crocifissione di un malfattore di Galilea è un fatto basso, indegno dell’attenzione dei potenti e dei filosofi, ma è anche sublime, perché rivela la grandezza di Dio e il linguaggio degli evangelisti, incomparabilmente meno raffinato di quello, diciamo, di Tacito, rivela però una realtà molto più profonda dell’operato di un qualunque imperatore; la rivoluzione, naturalmente, non è solo letteraria e nemmeno solo religiosa o filosofica, ma sociale, perché mette al centro le classi subalterne o quanto meno le persone comuni: Dio, dopotutto, si è fatto uno di loro, e l’idea dell’Incarnazione, l’Altissimo che si fa povera carne, implica una ridefinizione di ogni categoria del precedente mondo aristocratico.

Aurbach è uno storico troppo avveduto per cedere all’ingenuità e un critico tropo fine per prendere posizione, ma le sue preferenze emergono più di una volta e sembra tifare per Marco contro Tacito, per Agostino contro sia Ammiano Marcellino che san Girolamo, per San Francesco contro san Bernardo da Chiaravalle: sempre cioè, in favore di un realismo maturo, popolare ma non grottesco, in contrasto con uno stile disincarnato, o artificioso; fino a Dante, l’uomo capace di parlare di teologia (cioè di materia sublime per definizione) attraverso una indimenticabile galleria di personaggi ed episodi estremamente realistici e che toccano la descrizione di ogni aspetto della realtà.

L’eredità cristiana dell’Europa

Auerbach ha un profilo da studioso del tutto laico ed era oltretutto di cultura ebraica e quindi è stato con una certa sorpresa iniziale che ho letto i suoi primi passaggi sul cristianesimo – la sua lettura del diniego di Pietro, in particolare – e successivamente una serie di letture molto fini del pensiero e della teologia cristiana, e in particolare del tema dell’Incarnazione, che d’altra parte, come detto, è centrale per la sua analisi (vedo anche che Auerbach era collega di Bultmann e inserito nel dibattito teologico-culturale dei suoi contemporanei, che aiuta forse a comprendere meglio questo aspetto). Sotto questo punto di vista oltre che molto umano, psicologicamente raffinato e mostruosamente erudito sto trovando Mimesis un libro molto edificante dal punto di vista spirituale.

Che io non abbia mai letto L’Imitazione di Cristo ma trovi edificante Mimesis dice probabilmente che tipo bacato di cristiano che sono, temo.

In questo periodo ho anche provato, sommessamente, a suggerirne fra le righe la lettura ad amici credenti: purtroppo un mattone di centinaia di pagine in cui ci si dilunga sulla paratassi non è probabilmente quanto di più spontaneo ci si aspetti a proposito di un testo di meditazione, quindi non mi pare di avere avuto troppo successo, purtroppo; d’altra parte ho anche provato sommessamente a suggerirne la lettura a conoscenti letterati con altrettanta poca fortuna, quindi probabilmente sono io che sono contemporaneamente un cattivo cristiano e un cattivo letterato.

Aggiungo, però, una riflessione che facevo ieri, più o meno nel passaggio fra San Francesco e Iacopone da Todi, e che riguarda, sostanzialmente, quelle che vengono chiamate le radici cristiane dell’Europa, un concetto che periodicamente ritorna nel dibattito politico e culturale. Chi legga Auerbach non può avere dubbi sul fatto che l’Europa abbia radici cristiane che sono, con buona pace del pensiero laicista, del tutto ineliminabili ancora per diversi secoli e che vanno ben al di là della presenza di istituzioni ecclesiastiche, perché corrono molto più in profondità. Il modo che ha Auerbach di presentare queste radici ruota tutto attorno al concetto di Incarnazione – il Dio che si fa uomo, il sublime che si fa quotidiano, la comunità cristiana che abita fra le case degli altri uomini e donne, una presenza che attraversa e informa di sé espressioni artistiche e culturali che tuttora riconosciamo importanti e un approccio che, ancora a distanza di secoli, possiamo guardare con rispetto (più Francesco che Bernardo, ma ci capiamo).

Ora, pensavo, invece che di tradizioni ingiustificatamente scritte con la T maiuscola o di valori chissà perché irrinunciabili o di religione che non è altro che un tentativo di supremazia etnica, di questo bisognerebbe parlare, dell’Incarnazione e di come questa è stata compresa, vissuta e condivisa da generazioni successive di europei: mi sembra una pista di lavoro fruttuosa.

Fruttuosa. Ovviamente, era già nel Concilio, ma non è di questo che voglio parlare, né di una superiorità della teologia dell’Incarnazione (usiamo una traduzione da economisti: bottom up), nei confronti di una teologia della Rivelazione (top down); dico proprio che, nelle mani di Auerbach, è una esposizione del tutto convincente e un punto di riunione su cui tutti possono trovarsi d’accordo.

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