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Di sequestri di persona e continentali

Durante la mia recente permanenza a Stintino mi è stato donato Beppe Anfossi – Di Acqua e di Tonnara, un lavoro dedicato alla vita di un importante imprenditore genovese che in Sardegna ha legato il suo nome in particolare a Stintino e alla sua Tonnara Saline. Anfossi è un personaggio interessante e i suoi ricordi illuminano pezzi del passato recente della Sardegna (e dell’Italia, parliamo di un imprenditore forse non di primo piano ma che ha attraversato in mezzo secolo molte realtà notissime della vita nazionale), quindi sono  molto grato al prof. Salvatore Rubino per il dono, ma non è tanto di questo che voglio parlare.Anfossi

A un certo punto ho trovato questo passaggio:

Una tappa obbligata era la casa di Baingito Maddau, che divenne mio grande amico e compare. Baingito è per me la rappresentazione del disordine, del caos, dell’allegria ma anche dell’attaccamento al lavoro, il suo, così faticoso di agricoltore e di allevatore di bestiame. Insieme ci divertivamo ad architettare scherzi, divenuti memorabili, come quando lo spacciavo per un feroce bandito sardo. Quanti “continentali” abbiamo intimorito! Una sera avevo invitato a cena nell’ovile di suo cognato Giuseppe una quindicina di persone a mangiare porcetto allo spiedo; erano le ventitré e, dopo una giornata di lavoro sul trattore in mezzo ai campi, arrivò Baingito che con un calcio spalancò la porta socchiusa e, sporco, ricoperto di polvere e con cipiglio intimorente, esclamò: «Chi è che devo sequestrare!». Tra gli invitati serpeggiò per alcuni attimi il panico, perché io mi divertii non poco a tenere i presenti sulla corda della paura. Poi io e lui scoppiammo a ridere, contagiando i presenti.

Non è uno scherzo che credo possa sembrare di buon gusto a molti sardi – per non parlare di quelli che nel periodo dei sequestri sono stati coinvolti direttamente o indirettamente nel problema – ma c’è stato un momento, in Sardegna, che scherzare su queste cose in presenza di continentali era abbastanza comune. Ricordo che la prima volta che me ne sono reso conto è stato quando ero responsabile regionale dei giovani di Azione Cattolica e accompagnai la vicepresidente nazionale (forse Maria Campatelli) in giro per alcune diocesi. Lei era stata nei giorni precedenti in diocesi di Ogliastra e mi raccontò che l’avevano portata di notte per una strada e, viste alcune pietre in mezzo alla carreggiata, le avevano raccontato che erano il segno certo di un abboccamento in corso fra banditi e intermediari.

Questo tipo di segnalazione è attestato largamente (ne parlano per esempio gli intermediari del sequestro De André nell’ultimo Faber in Sardegna) ma è chiaro che se ogni pietra in mezzo alla strada dell’isola avesse dovuto rappresentare il segno del passaggio di un sequestratore saremmo stati freschi: era una balla, insomma, facile da riconoscere per un orecchio locale, molto meno, come si è visto, per il continentale di passaggio.

Avevo sempre trovato il tizio che faceva da autista a Maria quella notte un po’ strano e quindi archiviai l’episodio come un tentativo  bizzarro di entrare in confidenza ma il tipo di racconto, in alcuni casi paro paro, si ripresentò più volte negli anni successivi, finché alla fine sparì insieme con la stagione dei sequestri.

Mi sono chiesto più volte il motivo per cui si diffondessero e si raccontassero storie del genere. In parte dipende dal gusto naturale che si ha nel raccontare storie del brivido – sono un modo sicuro di ottenere attenzione, dopotutto – e in parte c’era in aggiunta una specie di volontà perversa di épater la bourgeoisie, rivolta non dall’alto verso il basso, cioè dagli intellettuali verso le classi medie, ma dal basso verso l’alto, da esponenti di ceti rurali verso i turisti, da abitanti delle zone interne verso coloro che provenivano dalle coste.

In aggiunta c’era, di sicuro, un modo perverso di mettere sotto lo straniero, tanto più se donna, ponendolo in situazione di svantaggio. Da ragazzini abbiamo mandato dei coetanei con cui passavamo l’estate a chiedere al supermercato di comprare bruncu pistau* o peixeddus de anguidda*: sono tipi di scherzo ben noti, meccaniche che si creano in un gruppo chiuso a danno dell’estraneo o del nuovo venuto. Qui si colorava di una dimensione un tantino più ampia di rivalsa, perché raccontare storie di banditi di notte in una macchina in cui ci siamo solo io e te non può essere giustificato con il dare spettacolo a beneficio del gruppo dei pari, a meno di non considerare che il gruppo in questione è l’intera Sardegna che gode del continentale giunto a comandare che viene impaurito e metaforicamente rimesso al suo posto.

Sono dimensioni di rivalsa che non si possono sottovalutare. Ma la dimensione più importante, ovviamente, era la volontà consapevole di creare mitologia. La Sardegna è adatta a giocare nell’Italia il ruolo di ventre fecondo che genera continuamente mitologia: è un’isola, quindi altrove per definizione, in grado di rappresentare forme diverse di esotismo, e contemporaneamente è relativamente facilmente raggiungibile, ha una sua storia ampia, cultura propria, costumi, tradizioni particolari. È grande, quindi è difficile esplorarla tutta e può mantenere facilmente dimensioni ignote capaci di generare ulteriore esotismo anche per coloro che l’hanno già conosciuta. Se tutta l’Italia è stata, in passato, parte di quel sud non industrializzato che si offriva al nord dell’Europa come luogo primitivo, ricco di sapori e sentimenti forti e decisi, la Sardegna è sud del sud: un ruolo del resto che gli intellettuali dell’isola le hanno talvolta attribuito esplicitamente. Per di più è divenuta in questi anni luogo turistico e la vacanza, nella quale si va lontano e si fanno cose inusuali che poi si racconteranno al ritorno, è in sé luogo adatto alla creazione (e al consumo) di mitologie. Si vede comunemente, dall’Ichnusa a mille altre cose.

Alcuni di questi miti sono prodotti spontaneamente, altri invece sono spacciati consapevolmente dai nativi.

Ogni tanto capita di sentire amici continentali che ti raccontano di avere bevuto un vino buonissimo, quello là tipico vostro, com’è che si chiama? E tu dici: «Cannonau?». «No, meno comune, un vino davvero particolare…». «Monica?». «Ecco, quello!».

Particolare. A me piace moltissimo, ma insomma, si trova dappertutto…

«E ci hanno raccontato che si chiama così perché lo schiacciano le donne, nelle notti di luna piena, a piedi nudi. Un rito che si rifà al periodo pagano e alla dea nuragica monica…» (giuro!!).

Oppure quello che è stato in un paese, e gli hanno detto che quando muore uno la casa e le vie dintorno vengono recintate con crespo nero e nessuno può oltrepassare quel confine per tre giorni e  tre notti, perché si crede che altrimenti l’anima del defunto vagherà in eterno per il paese.

Giuro.

Non a caso spesso le zone di generazione di queste storie sono le aree a forte impatto turistico, la Gallura, la costa orientale, le zone nordoccidentali: la fornitura di miti a buon mercato è un servizio di accoglienza aggiuntivo (se ne trova traccia in qualche gag di Aldo, Giovanni e Giacomo, che di queste cose hanno capito tutto).

Le storie di banditi rientrano soprattutto in questa dimensione mitologica, di costruzione dell’immaginario del continentale sulla Sardegna: si vede bene nell’episodio raccontato da Anfossi. Là i turisti – che tra l’altro stanno mangiando il porcetto, alimento mitologico per eccellenza, nello stazzo del pastore, attore mitologico per eccellenza – sentono di essere in un luogo in cui tutto può succedere, un luogo primitivo nel quale, hanno letto sul giornale, banditi si aggirano indisturbati a commettere crimini efferati. Entra un sardo pastore e, zac! è infatti un sequestratore. Il mito è inverato.

Nell’episodio raccontato da Anfossi è anche evidente il meccanismo di inside joke, di complicità fra Maddau e lo stesso Anfossi, che sanno la verità e gabbano gli ignari, ma il punto centrale è che lo scherzo, tolto dal contesto mitologico in cui è giocato, assumerebbe tutta la sua luce meschina: infatti se uno in città entra scherzando in una gioielleria facendo il segno della pistola sotto la giacca la cosa più probabile è che il gioielliere gli spari e finisca in tragedia; se al mare uno grida che sta affogando – o che ha visto uno squalo – e non è vero come minimo gli fanno una cazziata che non finisce più. In America, poi, se giochi con gli stereotipi in questo modo, come sappiamo, finisce che sei lo scemo di Internet della settimana. In quel contesto, invece, è un scherzo che si ricorda con nostalgia.

È possibile perché c’è codipendenza fra gli attori, come nel rapporto fra la moglie abusata e il marito violento: turisti a caccia del brivido o dell’esperienza che appaia fantastica da una parte e dall’altra nativi primitivi che spacciano storie nelle quali fanno brutta figura, convinti come sono che in questo modo stanno prendendosi chissà quale rivalsa sui colonizzatori stranieri (o peggio: magari stanno assumendo consapevolmente il ruolo di aborigeno primitivo che con la sua rozzezza diverte l’ospite).

Com’è che ho pensato a queste cose in questi ultimi giorni?

Provate a rileggere quello che ho scritto ripensando alla polemica sulla trasmissione di Voyager ambientata in Sardegna, e a quelli che dicono che anche se erano balle la cosa non va poi male perché almeno si attirano i turisti. Provate a pensare se, magari, per l’ennesima volta non stiamo vendendo una Sardegna mitologica, qualunque essa sia, in cambio di specchietti e perline.Voyager Sardegna* rispettivamente: “faccia pestata” e “piedini di anguilla”

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