All’erta per l’arte
Vedo sul Guardian che un gruppo di studenti dell’Imperial College di Londra ha presentato una mozione contro l’installazione nel campus di una scultura prodotta dall’artista Antony Gormley, perché questa, a-hem, raffigurerebbe un uomo in stato di palese eccitazione sessuale, sarebbe «fallica», con una «evidente erezione».
L’artista si difende dicendo che la statua rappresenta invece un uomo accosciato, pronto a intraprendere il cammino della ricerca, e che a questo allude il titolo dato all’opera, Alert, cioè “all’erta” o “vigile”, nome che invece agli studenti sembra un’ulteriore conferma della loro interpretazione.
Ora, devo dire che a me la statua non dispiace, probabilmente perché sono affezionato a certe rappresentazioni della figura maschile da parte di Nivola (che, peraltro, non rifuggiva dall’indicare esplicitamente gli attributi sessuali in alcune di queste opere).
La mia reazione a caldo, lo ammetto, è stata pensare che un tempo all’università i bigotti erano i professori, e adesso invece sono bigotti gli studenti. Una frase come: «essi fanno notare come non ci sia: «niente di sbagliato in sé in una rappresentazione fallica nell’arte», tuttavia l’attenzione riservata al [presunto] pene causata dall’interpretazione fallica potrebbe farla considerare inappropriata per un’opera in mostra in un luogo estremamente pubblico», è esattamente il tipo di acrobazia verbale usata ipocritamente dai bigotti di tutte le epoche. Non a caso, in un separato articolo, Jonathan Jones, un critico d’arte del Guardian, parla di: «Ritorno dei repressi».
La cosa, tuttavia, è un po’ più complicata di così.
Ammetto di non avere mai prima sentito parlare di Gormley, definito da un portavoce dell’Imperial College: «uno degli artisti più importanti del mondo», così mi sono sentito spinto a approfondire, tanto più che lo stesso articolo del Guardian segnalava che Gormley non è nuovo a queste contestazioni – con più di un briciolo di cattiveria il citato Jonathan Jones spiega così l’origine delle contestazioni:
Gormley ha costruito la sua reputazione su una sorta di blando umanesimo che non spaventa la classe media – o non la spaventava […]. Ha sempre detto di credere nella “quota parte dell’osservatore”: il significato che chi guarda attribuisce all’opera. La trasparenza, un critico potrebbe dire la banalità delle sue immagini, lascia spazio più che sufficiente all’immaginazione dello spettatore
per attribuire all’artista tutto e il contrario di tutto, parrebbe.
Sarà. Però sono andato a vedermi la precedente opera di Gormley contestata dal pubblico e non mi pare che il tema sia esattamente questo. Sulla spiaggia di Aldeburgh sono state depositate quattro forme – l’opera si chiama Quartetto (dormienti) – e fra i residenti della zona si è diffusa l’impressione che si trattasse non di foche a riposo sulla spiaggia ma di una collezione di giocattoli sessuali. Ancora una volta non è che facciano discutere contenuti tipici del dibattito sull’arte contemporanea, come il fatto che sia non naturalistica o non descrittiva, e che quindi non ci si capisca niente, o che sia di cattivo gusto o lontana dai canoni estetici che comunemente si attribuiscono all’arte; il problema è sempre di tipo sessuale.
Qualche volta l’opera ha davvero un taglio sessuale. Gli articoli che andavo leggendo ironizzavano, fra l’altro, sul fatto che in una installazione dell’artista Joep Van Lieshout si fosse intuita la possibilità di un rapporto sessuale fra uomo e animale, spingendo il Louvre a rifiutarsi di accoglierla e spingendola verso il meno prestigioso Beaubourg.
«Intuire la possibilità» mio nonno. L’opera raffigura esattamente quello, come spiega l’artista sul suo sito – il grassetto è mio:
Domestikator è un’opera d’arte di grande formato che serve da totem, tempio e faro. Essa simboleggia il potere dell’umanità sul mondo e paga il suo tributo all’inventiva, alla raffinatezza e alle capacità dell’umanità, al potere dell’organizzazione e all’uso di questo potere per dominare il mondo naturale. Per sostenere materialmente sette miliardi di persone, l’agricoltura è divenuta un’industria, con un’agricoltura di tipo estrattivo e la manipolazione genetica una necessità. Questo ci pone di fronte a un dilemma etico, dato che questo tipo di agricoltura sembra sconfinare nell’abuso. Allo stesso tempo, l’abuso evidente di un animale, il rapporto sessuale con esso, è uno degli ultimi tabù rimanenti. Perché trattare un animale come se fosse un altro umano è un atto indicibile, quando trattare un animale come una risorsa per la produzione industriale è la norma.
La cosa interessante, però, è che lo stesso artista in un’intervista su ArtNet invece fa lo gnorri:
Sono rimasto sorpreso [dell’atteggiamento del Louvre], prima di tutto. Allibito, in realtà, dato che l’ultima cosa che mi aspettavo era che qualcuno potesse dire che questo era in lavoro sessualmente esplicito.
Curiosamente, vedo che anche per un’altra opera anch’essa contestata a Parigi, la vagina gigante esposta da Anish Kapoor nei giardini di Versailles, i commentatori riportano che l’artista dice e non dice: «non ha una connotazione sessuale ben precisa. Potrebbe trattarsi sia di un fallo sia di una vagina. Toccherà allo spettatore dare un’interpretazione personale».
E quindi boh. magari il sesso è l’ultima frontiera delle provocazioni possibili e agli artisti piace osare ma non troppo, perché poi magari al Louvre non ti prendono (o al Guggenheim, dove per la verità il problema era il maltrattamento degli animali, e però uno dei tre casi controversi prevedeva due maiali che si accoppiavano). Ci si trincera dietro questa trita questione dell’osservatore che deve trovare la sua propria interpretazione, riservando di svelare le proprie intenzioni ai cataloghi delle mostre, che tanto quelli li leggono solo gli espertie mi critici che non si scandalizzano.
In questo senso magari Gormley non è così blando come si crede e invece quelle specie di ferri sulla spiaggia sono veramente una collezione di vibratori, chissà.
Magari non tutti hanno il coraggio – o la linea artistica – di essere espliciti come Paul McCarthy col suo presunto albero di Natale, sempre a Parigi:
Ma la provocazione di McCarthy era esplicita e questo tipo di riferimento è costante: il naso del suo Pinocchio è, questo sì, palesemente fallico, e la sua opera precedente dedicata al Natale presentava un babbo Natale che teneva in mano lo stesso oggetto raffigurato qua sopra.
Come si vede dal titolo dell’articolo di ArtNet qui sopra, la provocazione di McCarthy ha suscitato reazioni piuttosto accese: un tizio l’ha schiaffeggiato in piazza e la scultura è stata sabotata, costringendo alla rimozione. L’installazione di Versailles è stata sfigurata più volte con lancio di vernice e scritte varie; la mostra del Guggenheim è stata ritirata dopo che sono giunte minacce esplicite da gruppi animalisti; leggendo ho visto che ci sono molti altri casi: con sorpresa scopro che l’arte contemporanea suscita passioni capaci, addirittura, di travalicare – altro che battaglia dell’Hernani.
Mi chiedo come mai tanta propensione alla controversia e alla violenza. Jonathan Jones, il critico che ho citato prima, fa riferimento alla tendenza attuale a voler sempre segnare il proprio punto e prendere posizione, su tutto, senza sconti, polarizzati. Altrove vedo che si fa notare che l’arte negli spazi pubblici tocca corde molto personali – dà la sensazione di invadere spazi, viola la familiarità che si ha coi luoghi, e così via. E, personalmente, mantengo la mia idea che alcune polemiche facciano leva sui un rapporto irrisolto con la sessualità, sia nel pubblico che nella concezione delle provocazioni da parte degli artisti.
E poi ci sono i bigotti, ovviamente.
Questi quattro elementi sono tutti presenti nell’ultima polemica sull’arte pubblica che vi voglio raccontare, anche questa inglese e che riguarda Mary Wollstonecraft, prima autrice di un testo sistematicamente femminista.
Wollstonecraft non aveva da nessuna parte una statua che la celebrasse – devo dire mi sembra una cosa incredibile – e quindi è stata promossa una raccoltra di fondi, durata dieci anni, per finanziare un’opera adeguata, affidata all’artista Maggi Hambling.
Il risultato è quello che vedete qui sotto: da una colonna metallica spumeggiante, in cui si riconoscono parziali forme femminili, emerge una statuetta di donna nuda, con gli attributi sessuali abbastanza in evidenza.
Dico in anticipo che a me la statua non piace particolarmente – la trovo poco celebrativa, dato lo scopo – ma mi pare ci si possa intuire un discorso coerente: a me per esempio sembrava una specie di contrappunto alle Veneri che sorgevano dalla spuma delle onde, o le Atene dalla mente di Zeus: qui dalla storia spumeggiante delle donne emerge Mary Wollstonecraft e il femminismo, o dalla mente di Mary Wollestonecraft emerge una donna finalmente liberata. Sono sicuro che sono interpretazioni campate per aria, è per dire che io, maschio bianco etero ultracinquantenne, vedendo la statua non ho pensato: «Ammazza, ahò, che zinne, che figa, anvedi che io due botte gliele darei».
Invece la statua ha suscitato polemiche veementi, sit in, tentativi di rivestirla – sic – e richieste di rimuoverla.
Perché è nuda.
In parte si vede perfettamente quanto sia meccanica la mente dei bigotti: a cosa uguale corrisponde significato uguale, sempre e comunque. Tutti i peni sono scandalosi, anche se di Michelangelo, e vanno mutandati; tutte le gambe sono peccaminose, anche se delle cassapanche, e vanno coperte; tutte le facce pitturate sono blackface e quindi razziste; tutte le statue di donne nude giocano sulla sessualizzazione o sulla mercificazione della figura femminile per l’occhio maschile.
Oh, occhio: non è che questo non capiti davvero, vedi anche alla voce Spigolatrice di Sapri o l’incomprensibile statua dedicata a Maria Grazia Cutuli e Ilaria Alpi, dico che non sempre la cosa è evidentemente così, come nel caso del monumento a Cristina di Belgioioso a Milano o della statua della Lavandaia di Bologna, con buona pace delle petizioni che ne chiederebbero l’abbattimento.
Ma non tutti o tutte sono bigotti, e nella polemica sulla statua di Wollstonecraft non c’è solo questo. C’è il senso di possesso nei confronti di una figura che si sente come fonte di ispirazione, il dispiacere per una realizzazione a lungo attesa che si rivela deludente, la sensazione che un luogo amato sia stato sconciato dalla bruttezza e sia ora infrequentabile, il senso di inferiorità, e poi di rivalsa, nel rendersi conto che ad altri filosofi onorati nei dintorni – e le cui statue, peraltro, sono lì da un sacco di tempo prima – è stato riservato un trattamento diverso: sono statue tradizionali, naturalistiche e, ovviamente, vestite.
Mentre qui c’è una donna nuda.
E quindi gira tutto attorno al sesso.