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Battle Cry of Freedom (James Mc Pherson, Oxford University Press, circa € 10)

Ho appena finito di leggere Battle Cry of Freedom, di cui avevo sempre sentito parlare e che nei paesi anglosassoni è considerato un classico, anzi la classica lettura introduttiva al tema della Guerra Civile americana.

Sul termine introduttiva occorrerebbe intendersi, perché sono comunque circa 1000 pagine fitte di note; ma il curatore della collana storica di Oxford è attentissimo a far notare che le storie della Guerra Civile pubblicate a quel momento comprendevano diversi volumi altrettanto corposi, e McPherson è capace di offrire una presentazione sintetica (sintetica rispetto a quelli, ovviamente) degli avvenimenti e del loro significato senza diventare mai banale e prendendosi lo spazio, nei momenti cruciali o controversi, per analizzare le varie posizioni presenti fra gli storici e discuterne meriti e limiti.

Il taglio storico è essenzialmente politico-militare (più politico che storico, direi); è una scelta che sia riguarda l’esigenza di sintetizzare (ripensando alla mia lettura di A world on fire, colpisce la stringatezza con cui viene trattata la dimensione diplomatica, per esempio) ma che è anche legata probabilmente al modo del 1988 di fare storia: lo stesso McPherson, nella postfazione della mia edizione (nel 2003) fa notare come dopo l’uscita di Battle Cry of Freedom la storia sociale, la storia materiale, la storia razziale e la storia di genere, per citare dei grandi filoni, abbiano avuto sviluppi importanti e abbiano molto cambiato il modo di raccontare la Guerra Civile, anche se, forse, senza modificare il senso storico profondo che McPherson gli attribuisce.

Devo dire che a me il taglio del libro è piaciuto, e che in generale ho trovato senz’altro molto più interessanti le parti politiche che quelle militari. In parte è dipeso dal livello di scoperte che ho fatto, per esempio riguardo all’evoluzione politica di Lincoln, ma soprattutto per la capacità (casuale?) che il libro ha avuto di suggerire riflessioni e confronti riguardo all’attualità, forse troppi per essere elencati, ma diciamo che nel leggere si susseguono temi come la crisi della democrazia di fronte all’arbitrio sostenuto dalla forza, il rapporto fra moderatismo e radicalismo nelle forze progressiste, il senso della guerra e del pacifismo, il rapporto fra propaganda e disponibilità al mantenimento della guerra, l’uso strategico del pacifismo altrui – e la disponibilità dei pacifisti a farsi usare, il modo con cui la guerra inevitabilmente si fa totale, l’effetto che questo ha sulla possibilità di accordi di pace, la dimensione autoritaria che inevitabilmente una guerra totale alimenta e fa prosperare, la differenza di posizione delle forze progressiste fra una guerra come la Guerra Civile e la Prima Guerra Mondiale, come ne crogiolo della guerra posizioni prima considerate estreme divengano del tutto maggioritarie e molto altro. È chiaro che leggere una storia della Guerra Civile dopo una pandemia (col suo sottofondo di interpretazione guerresca del virus), in epoca di Trump e durante la guerra in Ucraina rende immediati certi confronti, ma ho l’impressione che in altri periodi la spinta al confronto con il presente sarebbe comunque stata altrettanto forte (non cito la questione razziale in America perché quella non è una coincidenza col presente, è direttamente il tema, o almeno uno dei temi, del libro).

Tanto è interessante la parte politica nel suggerire riflessioni e confronti, tanto dispiace che la lettura degli eventi si concentri (inevitabilmente?) più al Nord che al Sud: dipenderà, immagino, dal fatto che molti più documenti, corrispondenze, e archivi siano sopravvissuti da una parte che dall’altra, ma probabilmente anche dal fatto che sembra più interessante ricostruire i movimenti interni di quelli che si sono poi rivelati i vincitori: eppure la rilevanza della materia suggerirebbe che si provasse a rendere con più evidenza il ventaglio di idee, di elaborazioni e anche di contrasti politici fra gli sconfitti.

Questo in parte perché una serie di posizioni politiche sudiste – qui sono influenzato da quanto ricordo di A world on flames – sembrano un azzardo scellerato o una scelleratezza azzardata sin dalla scoppio della guerra, e ti chiedi chi, come e quando se ne sia reso conto, e come tutto sia stato normalizzato per proseguire la guerra, ma anche perché dove il libro mostra dei limiti – e sembra datato – è nel bilancio che trae in conclusione, nel quale la sensazione che la Guerra Civile abbia impresso un cambio di direzione radicale e irreversibile alla vita degli Stati Uniti – che è corretto – sembra portare a un eccesso di sicurezza che permette in qualche modo di offrire una giustificazione al Sud:

Nel periodo prima della guerra, il Sud assomigliava alla maggioranza delle società del mondo di quanto non lo facesse il Nord in rapido cambiamento. Nonostante l’abolizione legale della schiavitù o del servaggio nella maggior parte dell’emisfero occidentale e dell’Europa occidentale, la maggior parte del mondo, come il Sud, aveva una forza lavoro non libera o quasi-libera. La maggior parte delle società del mondo rimanevano prevalentemente rurali, agricole e basate su produzioni ad alta intensità di lavoro; la maggior parte, compresi perfino diversi paesi europei, avevano tassi di analfabetismo altrettanto alti o più alti del 45% del Sud; la maggior parte come il Sud restavano legati dai valori tradizionali e dalle reti familiari, di parentela, di gerarchia e patriarcato. Il Nord, insieme con qualche altro paese dell’Europa nordoccidentale, si affrettava impazientemente verso un futuro di capitalismo industriale che molti al Sud trovavano sgradevole se non terrorizzante; nel 1861 il Sud manteneva orgogliosamente le proprie radici nel passato, perfino con aria di sfida.

Quindi quando i secessionisti dichiaravano che essi agivano per preservare valori e diritti tradizionali, essi erano corretti. Essi combatterono per proteggere le proprie libertà costituzionali contro l’impressione che il Nord minacciasse di rovesciarle. L’idea di repubblicanesimo del Sud non era cambiata in tre quarti di secolo; quella del Nord invece sì. Con completa sincerità il Sud combatté per preservare la propria versione della repubblica dei padri fondatori – un governo di limitati poteri che proteggesse i diritti di proprietà e il cui corpo politico era composto da una classe indipendente di aristocratici e piccoli proprietari terrieri bianchi non minacciati da grandi città, industrie prive di anima, impazienti lavoratori liberi e conflitto di classe. L’arrivo al potere del Partito Repubblicano, con la sua ideologia di capitalismo competitivo e egualitario, basato su una forza lavoro libera, era un segnale per il Sud che la maggioranza del Nord si era indirizzata irrevocabilmente verso questo spaventoso e rivoluzionario futuro. In effetti, il Partito Repubblicano “nero” sembrava agli occhi di molti sudisti, come “essenzialmente un partito rivoluzionario” composto di “un’accozzaglia di sanculotti… Infedeli, persone che professano il libero amore, mischiati con donne in gonna-pantalone, schiavi fuggitivi e amalgamazionisiti”. Perciò la Secessione era una controrivoluzione preventiva per prevenire la possibilità che la rivoluzione dei Repubblicani Neri circondasse il Sud. «Noi non siamo rivoluzionari”, dichiararono durante la Guerra Civile B.D. DeBow e Jefferson Davis, «Noi stiamo resistendo alla rivoluzione… Noi siamo conservatori».

Pochi storici di oggi, e ben pochi protagonisti nordisti dell’epoca, sottoscriverebbero queste parole. Soprattutto, le ho lette con molta sorpresa perché poche pagine prima McPherson critica implicitamente il mito della Causa Perduta, il complesso di ideologia e falsificazione storica che permette a tanti conservatori americani di sentirsi ancora eredi ideali della Confederazione, e soprattutto perché tutta la lunga parte introduttiva del libro, nella quale si analizzano vent’anni di lotta politica che conducono poi allo scoppio della guerra, servono sostanzialmente a svalutare l’onestà intellettuale della classe dirigente del Sud, la quale dimostra, con tutta evidenza, di essere a favore dei diritti degli Stati solo quando questi diritti gli tornano comodi e di essere prontissima a usare i poteri del governo federale – e perfino la forza omicida – per conculcare i diritti di quegli Stati e Territori dell’Unione che, se esercitati, metterebbero a rischio la propria posizione di privilegio. Questa visione morale del Sud che McPherson riporta è esattamente la propaganda prodotta dai sudisti a favore di se stessi – casomai quello che è interessante è quanto spesso le forze reazionarie accampino la scusa di fantomatiche rivoluzioni avversarie per giustificare i propri, concretissimi, colpi di stato.

Il problema, naturalmente, è che nel caso della Guerra Civile americana è difficile, molto difficile, non sentirsi portati a passare dal giudizio storico al giudizio valoriale o morale; e, se anche non lo si volesse fare, l’attualità del perdurare del razzismo negli Stati Uniti agisce come uno stimolo potentissimo. E la posizione che la Guerra Civile non fosse a proposito della schiavitù è, con buona pace degli amanti della causa perduta, del tutto insostenibile. E tuttavia, a fronte di questo, è altrettanto difficile sostenere, per esempio, che tutti i Sudisti erano cattivi o anche solo razzisti, per non parlare del piccolo particolare che erano razzisti anche molti nordisti e che perfino la posizione di Lincoln è ambigua. Molti degli storici, preparati e serissimi, che seguo in giro per la rete amerebbero sostenere che i Sudisti erano tutti traditori; ma anche questa, alla luce dei contemporanei, è una posizione insostenibile e particolarmente complicata, già all’epoca, per i Nordisti stessi: perché i ribelli avevano in maniera evidentissima un governo, un esercito e proprie istituzioni; pur mantenendo la posizione di principio della illegittimità della secessione era assolutamente impossibile trattare la questione come una rivolta e non come una guerra vera e propria e non comportarsi, all’atto pratico, come due nazioni indipendenti in guerra l’una con l’altra, dallo scambio di prigionieri a mille altre questioni giuridiche. E, del resto, la cosa poneva problemi in Europa anche agli indipendentisti di sinistra: perché la Polonia sì e la Confederazione no?

La risposta, faceva notare Marx, non è nel gesto di secedere, ma nel motivo per cui si fa la secessione e a favore di quali interessi – qual è la causa, non la Causa, perduta o meno. Questa analisi è il proprio dello storico – e del politico – e permette di mettere serenamente da parte il fatto che gli uomini (e molte donne) del Sud combatterono con coraggio e persero con dignità – non è quello il punto e chiunque ha fatto la guerra o se l’è sentita raccontare dai propri genitori sa che, a livello personale, è sempre tutto molto complicato – infatti non è quello il livello su cui basare le proprie scelte, ha ragione Marx.

Nella postfazione McPherson, forse per correggere in qualche modo quest’ultimo capitolo, cerca di tornare anche lui sul senso storico della guerra e prova a lavorare sul concetto di libertà, che dopotutto è presente fin dal titolo del libro. Ci sono due modi di interpretare il concetto di libertà, dice, uno negativo e uno positivo. La libertà negativa è la possibilità di preservare le proprie azioni da costrizioni, libertà da; la libertà positiva è la condizione in cui si possono perseguire i propri scopi, libertà di. I sudisti combattevano per una libertà negativa: per evitare che uno stato centralizzato conculcasse i diritti locali; i nordisti per una libertà positiva, per rimuovere, usiamo una dicitura che ci è familiare, gli ostacoli economici e morali all’esercizio effettivo della propria libertà – ne sono prova, sembra pensare McPherson, il fatto che sia la guerra a far nascere la prima agenzia di promozione e assistenza sociale degli Stati Uniti e che sia la guerra a porre le basi per l’idea di affirmative action. È un’idea molto interessante, coerente col tema già citato di come la guerra trasformi irreversibilmente gli Stati Uniti, lanciandoli sulla traiettoria che conosciamo, ma ha il difetto, per recuperare il tema dell’eguaglianza, di trascurare l’altro tema della democrazia.

Sono andato a rivedermi il famoso discorso di Gettysburg di Lincoln, che forse era molto più moderato di quanto pensiamo ma aveva un dono della sintesi e una chiarezza di visione straordinari, e la formulazione che mette insieme i due temi è lì, bella pronta nelle prime righe:

Ottantasette anni fa i nostri padri costituirono su questo continente una nuova nazione, concepita nella Libertà e dedicata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, che mette alla prova se quella nazione, o ogni altra nazione, così concepita e così dedicata, possa a lungo perdurare […] che un governo del popolo, dal popolo, per il popolo non debba scomparire dalla terra.

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