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Diari di progettazione: parlare di conflitto

Il 30 aprile, a Selegas, i soci di Banca Etica organizzano un seminario sul tema del conflitto, che fa seguito a una attività precedente sulla gestione delle reti di lavoro.

Il seminario lo conduco io, e sono molto in tensione. Intanto perché, evidentemente, parlare di conflitto in questo periodo non è neutrale – non è mai neutrale, ma in questo periodo meno che mai – e poi perché, abbastanza paradossalmente, fra tutte le centinaia di incontri di formazione che ho gestito uno sul conflitto non l’ho mai fatto. Ho tutti gli strumenti, ho fatto ore e ore di formazione (e pratica) sull’argomento, ma un incontro di formazione mio mai.

Insomma, sento la responsabilità e quindi ho scaricato dalla libreria tutto quel che mi pareva rilevante – più o meno un palchetto di libri – e mi sono messo a studiare. Un po’ di fonti sono abbastanza eterodosse, per quanto io le trovi molto rilevanti; per esempio ho incluso la raccolta di saghe islandesi che stavo comunque finendo di leggere, ma d’altra parte mi sembra che nessuna letteratura abbia riflettuto con la stessa costanza sulle faide e le tensioni interne a un raggruppamento sociale – il problema, semmai, è che saggezza provare a distillare dal corpus.

Ma divago: in realtà quello che volevo dire è che, anche senza andare a scomodare Snorri Sturluson e compagnia, il campo delle suggestioni da seguire è vasto, e la tentazione di allargarlo ulteriormente seguendo le piste suggerite, finendo per cercare cose dalle quali mi sono sempre tenuto accuratamente alla larga, tipo Clausewitz, è forte.

Facendo una ricognizione, del conflitto intanto si sono occupati i militari, i quali dopotutto sono professionalmente dediti alla gestione di un tipo particolare di conflitto, la guerra, mediante un tipo specifico di strumento, la violenza. Considerato che purtroppo la guerra è uno dei (o forse il) conflitto fra i più presenti al nostro pensiero, il loro apporto non è trascurabile.

E d’altra parte, sul conflitto riflettono da sempre i politici, intanto perché sanno benissimo, come direbbe Clausewitz, che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari, e poi perché normalmente hanno chiarissima l’idea che politica, potere e conflitto (e forse violenza) sono inestricabilmente legati. E fra i politici c’è tutto il filone del pensiero strategico, dalle riflessioni sull’intreccio di democrazia e politica di Machiavelli alle volgarizzazioni del pensiero strategico orientale, sul genere del Sun Tzu in pillole per manager.

E a proposito di manager, ovviamente del conflitto si sono occupati gli economisti, sia che considerino il mercato come campo di conflitto che come meccanismo per regolare il conflitto. Ed è difficile parlare di conflitto ignorando tutto il vasto corpus della teoria dei giochi e la sua pretesa di descrivere e prevedere a un tempo l’esito di qualunque conflitto e, già che ci siamo, di qualunque questione etica possa venire in mente all’economista specializzato di passaggio.

Di conflitto si occupano i ludologi, non solo perché tanti giochi sono conflitti in sé o simulazioni di conflitti (e spesso tutt’e due le cose insieme), ma soprattutto perché sanno che il gioco è una cosa troppo seria per lasciarlo agli economisti e alla loro comprensione imperfetta.

E poi c’è tutta la vasta gamma degli scienziati sociali con la loro pretesa di non descrivere il mondo ma di cambiarlo, il che li porta, di volta a volta, a suscitare conflitti oppure a risolverli, con esiti in entrambi i casi non sempre fortunata. C’è fra loro tutta la santa schiera dei pensatori nonviolenti, per quanto spesso i loro allievi non siano poi proprio all’altezza.

E ci sono tutti i religiosi, che spesso criticano gli scienziati sociali e la loro amoralità, salvo poi proporre le loro ricette per risolvere o suscitare altri conflitti, o gli stessi.

Orpo, il mio palchetto di libri trasferito sul tavolo di lavoro si è appena raddoppiato.

E poi, e questo chiude il cerchio rispetto alle saghe, ci sono gli scrittori; Umberto Eco ricorderebbe infatti a tutte le categorie precedenti che ciò che non si può teorizzare è meglio narrarlo.

Io, peraltro, sono un giocatore e aggiungerei che ciò che non si può nemmeno narrare occorre giocarlo.

Solo che l’ansia del formatore spinge a essere esaustivi, e non ho abbastanza giochi miei per tutto quello che secondo me c’è da dire – ho più o meno due giochi di cui mi sento sicuro sui quattro necessari. Ovviamente c’è una vasta serie di tecniche di animazione (che in fondo tanti chiamano giochi) fra le quali scegliere per risolvere il problema, ma mi sembra un po’ una sconfitta.

Oh, in fondo ho ancora una ventina di giorni per prepararmi.

E così tanto da leggere.

P.S. Prima che tutti gli interessati decidano in blocco che con queste premesse è meglio tenersi alla larga dal seminario, ho avuto cura, fra i libri che sto rivedendo di cui ho inserito qui le copertine, di mettere Daniele Novara, Pat Patfort e Galtung, così si capisce qual è il filone principale in cui mi muovo…

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