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La mediocre ottima sceneggiatura

Tutti lo sanno (Asghar Farhadi, Spagna, Francia Italia 2018)

Ai bei tempi, il critico cinematografico di Famiglia Cristiana era uso accompagnare le sue recensioni con due parole riassuntive, che contenevano anche una sorta di avvertimento morale per le famiglie perbene: che so, un film della serie de Il Monnezza era probabilmente etichettato come discutibile/sconcezze, da permettersi solo a adulti ben avvisati, mentre il classico Disney natalizio doveva essere probabilmente spensierato/famiglie.

Uno dei giudizi più frequenti, però, era consigliabile/dibattiti, e serviva a indicare un bel film, probabilmente d’autore, privo di gravi problemi morali ma sufficientemente tormentato, o moderno, da prestarsi bene per una sana seduta di cineforum, come spunto per riunioni e incontri o magari per una serata estiva.

Sabato sono andato a vedere Tutti lo sanno e a un certo punto ho pensato che la vecchia definizione di Famiglia Cristiana, in questo caso, era perfetta.

Perché Tutti lo sanno ha un bell’impianto da thriller che tiene alta la tensione e l’attenzione dello spettatore per oltre due ore, è recitato da bravi attori e tende a dare di sé un’aria da classico che alla fine dovrebbe portarti a dire: «Beh, filmone!». E nel mentre presenta in maniera lineare un tema – quello della famiglia – accumulando stimoli e letture diverse: la paternità (più che la maternità) e il richiamo del sangue, i rapporti irrisolti, le fedeltà al legame familiare e i tradimenti, le gelosie, le relazioni fra le generazioni, i progetti comuni e fino a che punto una famiglia possa resistere agli attacchi, il rapporto con le radici e il come l’identità della famiglia si strutturi su ciò che possiede, in questo caso la terra – l’Inossidabile sostiene che Tutti lo sanno ha un’aria da grande romanzo francese degli anni ’30 o ’40, quelle storie con le famiglie borghesi rurali, ma non avendo mai frequentato quell’ambiente non posso confermare (in qualche modo mi sembra azzeccato).

È un bel po’ po’ di roba e viene voglia di giocare a fare il catalogo dei temi via via messi in campo; d’altra parte, è proprio la capacità di porre tutta questa carne al fuco rispettando, formalmente, la struttura di una narrazione di genere, insieme a una indubbia qualità cinematografica, a dare a Tutti lo sanno la sua aria da: «Voglio essere un classico».

Solo che.

Solo che a un certo punto ti rendi conto che la sceneggiatura – firmata dallo stesso Farhadi – gioca consapevolmente a ingannare lo spettatore seminando a bella posta falsi indizi e alla fine, non sapendo bene come cavarsela, sceglie il gioco di prestigio e così è davvero troppo facile.

Non è un problema da poco: rileggendo la sceneggiatura ci si accorge che quella che tendeva a presentarsi come un perfetto marchingegno – c’è perfino il meccanismo del vecchio orologio del campanile ad accompagnarci nell’introduzione – è in realtà poco più che mediocre: per esempio gli elementi della trama che man mano vengono scoperti dai protagonisti – i segreti che vengono a galla – non sono collegati al meccanismo del thriller (cioè, non è che succede un fatto e allora uno dei segreti fatalmente si rivela, generando azioni e reazioni e portando quindi altri segreti a rivelarsi e così via): piuttosto indagine criminale, indagine psicologica sulla famiglia e relazioni fra i personaggi corrono affiancate, solo casualmente incontrandosi: un andamento saltellante che è un buon indizio della qualità della messa in scena, per il fatto che per bona parte del film uno non se ne accorge.

Fra le regole di Veneruzzo ce n’è una che dice che se il film ti rimane nella coscienza nei giorni successivi, se ci ripensi, se cresce nel ricordo, probabilmente è un bel film. A Tutti lo sanno purtroppo succede il contrario: come per quelli che ascoltavano Saruman, finito lo spettacolo e scoperto il trucco, il fascino si illanguidisce. È un film che cala progressivamente, aprendo dubbi crescenti; per esempio le libertà che la sceneggiatura si prende con i canoni del genere che utilizza e con la buona fede degli spettatori tende a far svalutare il rigore dell’autore, e allora una serie di dubbi ulteriori si affacciano: più che un film autoriale, espressivo di un identità artistica di Farhadi (e comunque la poetica dell’uomo virile ma fragile ferito a morte da una donna bella e forte, il passato come un peso ineludibile, già vista almeno ne Il passato, magari ha anche stancato), forse Tutti lo sanno  è una operazione a tavolino, un film con attori di grido adatto contemporaneamente ai gusti di un pubblico occidentale ma anche abbastanza pensoso da piacere nei festival.

È un dubbio (probabilmente?) ingeneroso: però vedi a fare sceneggiature falsamente inappuntabili e in realtà mediocri, che rischi si corrono?

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