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Sul capitolo VII del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa

Nel mio intervento vorrei brevemente indicare una “attenzione di lettura”, cioè suggerire un modo con cui affrontare la lettura di questo capitolo, e poi dire quali sono secondo me i due temi portanti che emergono con maggiore forza dal testo. Chiuderei, se ce la faccio, con una citazione che ho trovato, che mi è piaciuta molto e che fa “quadrare” il tutto.

Cominciamo con lo stile di lettura. Il mio è stato questo: c’è un brano del Vangelo, un versetto più esattamente, che mi ha accompagnato lungo tutta la lettura del capitolo del Compendio che mi è stato affidato. La frase nel compendio è semplicemente citata in nota ma per me è molto importante. È il versetto di Matteo 6,24: “Non potete servire Dio e il denaro”. Perché in fondo il capitolo che ho letto potrebbe essere riassunto nell’espressione: “Denaro e fede cristiana”, ma la radicalità evangelica, confermata in vario modo dai Padri, ci dovrebbe far dire piuttosto: “Denaro o fede cristiana”.

Questo per me è molto chiaro e non può che essere la cornice di tutto ciò che diciamo. D’altra parte, come diceva Diogneto, i cristiani vivono in mezzo agli altri cittadini, viviamo in una società che usa il denaro, direi di più: è basata sul denaro, respiriamo economia, e allora che fare? Non possiamo che scendere a un compromesso, e tentare di cavalcare la tigre. Ma è importante ricordare che è un compromesso. C’è in economista francese, Latouche, che osserva come il nostro tentativo di governare i fenomeni economici genera delle strane espressioni contraddittorie: consumo… ma critico; sviluppo… ma sostenibile; commercio… ma equo e solidale. E il Compendio viaggia per tutto il capitolo sullo stesso sottile equilibrio di un compromesso per sua natura instabile fra denaro e fede cristiana.

Non è una critica, nel senso: non mi sto tirando fuori. Io stesso “posseggo” una Banca, un piccolissimo pezzo della Banca popolare Etica, però sono pur sempre un “azionista”, dunque anche io ho deciso di compromettermi, di fare etica mediante la finanza… noi in Banca Etica diciamo spesso di noi che non vogliamo essere una banca alternativa, cioè fuori dal sistema, ma alterativa, cioè dentro la vita economica per migliorarla.

Tuttavia ritengo, e la finanza etica lo sperimenta con fatica tutti i giorni, che questa “convivenza” col denaro sia una sorta di piano inclinato che facilmente porta a scelte, a soluzioni non buone se noi, come dicevano i Padri orientali, “non poniamo una sentinella al nostro cuore”. Altrimenti cosa succede? Che oggi rinunciamo a un piccolo pezzo della nostra diversità, domani a un altro, e alla fine quella pretesa (giustissima!) che ha il Compendio di sottomettere la vita economica alla vita morale salta, perché il mondo è fatto così, perché la vita economica ha le sue regole… e così via. Perché il denaro non è un bene; non è il bene ultimo (perché uno solo è il Signore), e non è nemmeno penultimo: è un mezzo. Ma fra tutti i mezzi è uno dei più insidiosi, e facilmente divora, come il Mammona dei Fenici, coloro che se ne servono se si lasciano andare all’assuefazione. E noi lo vediamo tutti i giorni, nel predominio che la vita economia ha assunto sulla politica, sulla cultura, sulla comunicazione, sulla dignità delle persone.

Perciò il mio consiglio di lettura per questo capitolo è questo: scrivete in alto a destra su ogni pagina il versetto. “Non potete servire dio e il denaro”. E rileggetevelo di volta in volta. Il problema non è la ricchezza in sé, ma l’uso che se ne fa. Verissimo, ma… “Non potete servire Dio e il denaro”. La ricchezza offre opportunità per fare il bene? Certo, ma… “Non potete servire Dio e il denaro”. Il libero mercato è una istituzione socialmente importante… l’imprenditore deve avere la sua libertà d’iniziativa… MA NON POTETE SERVIRE DIO E IL DENARO.

Venendo ai temi, mi pare che ce ne sono due che attraversano come un filo rosso tutto il capitolo. Il primo è quello della giustizia. Non c’è campo dell’agire umano come la vita economica che implichi maggiormente la discussione su cosa sia “giusto”. Naturalmente, se siamo cristiani sappiamo che la misura della giustizia di Dio è Gesù Cristo, che è morto sulla croce per i giusti e per i peccatori, perciò “fare giustizia”, anche nella vita economica, non può riportare a banali criteri meritocratici o legalistici, ma deve dire qualcosa di più.

E dunque, quanti di noi, nella loro vita economica quotidiana, si pongono il problema di essere giusti? Se lo pone la comunità cristiana complessiva, nell’uso che fa dei suoi beni?

Mi è più semplice spiegarmi con due esempi. Il primo: è naturale che coloro che fanno i lavoretti in Chiesa, fanno le pulizie, le piccole riparazioni, e non sono volontari debbano essere pagati. È meno naturale, forse, ma opportuno, che magari gli vengano pagati anche i contributi, che siano assicurati. Ma se io fossi il Vescovo, e volessi “fare giustizia” prenderei i disoccupati da più lungo tempo della Diocesi, gli farei fare una cooperativa, e gli darei in appalto la manutenzione di tutte le chiese.

Il secondo esempio: è certamente opportuno che se la diocesi ha dei beni, dei terreni per esempio, quei beni siano usati per finanziare le attività pastorali, per il sostentamento della diocesi. Ma molti vescovi della Locride hanno messo i beni della diocesi a disposizione dell’imprenditorialità dei giovani della loro terra, per dare loro la possibilità di un futuro in una terra vessata dalla ‘ndrangheta.

Non voglio qui svalutare i mille rivoli operosi della carità (per esempio parrocchiale), ma ricordo che il Concilio dice che non è corretto dare a titolo di carità ciò che è dovuto a titolo di giustizia, e dunque con il richiamo alla giustizia intendo riportare “a monte”, a una impostazione di base il nostro agire economico come comunità cristiana. Io credo che il tema della giustizia dia profondità, direi “tridimensionalità” a quanto scrive il Compendio. Anche una serie di riferimenti, allo stato, al mercato, ai corpi intermedi, alle istituzioni internazionali, alla globalizzazione, incrociati col tema della giustizia acquisiscono maggior pregnanza.

E in ogni caso, il tema della giustizia richiama a comportamenti anche molto quotidiani. Pagare le tasse. Personalmente e collettivamente. Per esempio, come soci della Banca Etica riteniamo che tutte le realtà che fanno attività economica dello stesso tipo devono pagare le stesse tasse. Anche l’ICI.

Il tema personale e quotidiano dell’esercizio della giustizia si intreccia strettamente con quello “globale” della destinazione universale dei beni e delle risorse, a cui il Compendio dedica un altro capitolo specifico oltre naturalmente ai riferimenti che fa in questo di cui stiamo parlando. La destinazione universale dei beni implica che non si scarichino i costi del nostro tenore di vita sulle fasce più deboli della popolazione, o sui paesi più deboli, o sulle generazioni future, assicurandoci una condizione di ricchezza a scapito di altri.

Di fronte a questa affermazione, la situazione è chiaramente tragica. Povertà crescente nei paesi del Nord, i quali comunque collettivamente si pappano l’80% della ricchezza mondiale, lasciando al restante 80% della popolazione un misero 20%. Il petrolio finirà fra cinquant’anni, e ci sono buone probabilità che alla prossima generazione lasciamo una terra rovinata per sempre.

I beni ci sono dati in uso, non per il nostro esclusivo possesso. Si tratta di un tema che era stato annunciato con molta forza in occasione del Giubileo da Giovanni Paolo II, e sarebbe opportuno che ci chiedessimo: che è rimasto del Giubileo sotto questo punto di vista? Per esempio, della campagna per l’abolizione del debito dei paesi più poveri? Non ne parla nemmeno il Compendio, spero per ragioni di… “compendio”, ma non è questa la domanda. Non parlo qui dell’impegno di vertice della Chiesa italiana, ma piuttosto della sensibilità quotidiana delle comunità ecclesiali. Mi pare che sia un tema di nuovo oggi molto abbandonato.

Vengono qui a proposito le parole di un grande resistente danese contro Hitler, il pastore Kaj Munk, trucidato dai nazisti nel 1944: «Quale dunque il compito del predicatore oggi? Dovrei rispondere Fede, Speranza, Carità? Sembra una bella risposta. Ma vorrei dire piuttosto coraggio. Ma neppure questo è abbastanza provocatorio per costituire l’intera verità. Il nostro compito oggi è la temerarietà, perché ciò di cui noi, come Chiesa, manchiamo non è certamente né di psicologia né di letteratura, quello che a noi manca è una santa collera». La santa collera, la temerarietà che scaturisce dall’urgenza dell’ingiustizia, dal grido del misero che si eleva fino al cielo. Quando forze economiche come quelle all’opera ai nostri giorni sacrificano milioni di persone al dio-denaro, non possiamo rimanere inoperosi. Perché come diceva sempre Kaj Munk: «I simboli della Chiesa cristiana sono sempre stati il leone, l’agnello, la colomba, il pesce, ma mai il camaleonte».

Grazie.

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Un pensiero su “Sul capitolo VII del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa

  • Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa è un grosso volumone che ha il compito di sistematizzare quanto detto dalla Chiesa in materia nell’ultimo secolo.
    Nel 2005 la Caritas regionale ebbe l’idea di presentare il Compendio con un convegno, in cui a varie persone venne chiesto di commentare ciascuna un capitolo. A me toccò il VII, sulla vita economica. Questo è quello che ho detto nell’occasione, divertendo i sacerdoti anziani e scandalizzando i seminaristi.
    Il Compendio l’ho recensito qui.

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