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Sul fronte del dovere

Fronte del mare (Cosentino, Italia 2016)

Ho visto l’altro giorno nella sala proiezioni della Società Umanitaria Fronte del mare, un documentario di Raffaella Cosentino ambientato a Bari. So che Cosentino ha girato in passato almeno un altro documentario sul tema dell’immigrazione seguendo l’idea di frontiera e si è occupata dell’argomento come giornalista indipendente, ma non conosco questi suoi lavori; questo documentario a me è parso molto valido a partire, prima di tutto, da una dimensione artistica.

Non parlo di particolari soluzioni cinematografiche: il montaggio incrociato fra la riflessione su se stesso e il suo passato del poliziotto in pensione Nicola Montano e le interviste dei suoi colleghi più giovani tuttora in servizio, sullo sfondo del porto di Bari e dei passaggi continui di migranti e trafficanti, costruiscono in maniera molto forte un discorso coerente e, non so come dire, avvincente: Montano ragiona con la libertà di chi non ha più addosso la divisa e l’obbligo di fedeltà che comporta e può, ora, rivelare quei dilemmi di coscienza sino a quel momento sedati , i poliziotti in servizio raccontano invece, in maniera molto spontanea, cosa comporti qui e ora servire la legge in un contesto difficile. È un confronto interessante che fornisce la cornice interpretativa per il successivo passaggio del documentario (peraltro abbastanza breve), quando Montano e Cosentino vanno a girare dentro un CPT (o un CIE, non ho capito bene).

Il legame fra la prima e questa seconda parte, fra le quali c’è una cesura abbastanza netta, è in fondo i tema della verità. Perché Montano è ora libero di dirla, e i suoi colleghi in fondo no, prima di tutto a se stessi: o perlomeno, devono darsi una serie di giustificazioni mali aggiuntive, per esempio la considerazione, peraltro vera, che bloccando i TIR che passano, con le loro intercapedini mostruose colme di corpi accatastati, o con le persone sospese sopra le ruote, probabilmente stanno salvando la vita di molti dei migranti; ma il loro dilemma (la verità)è ovviamente che se la legge che servono e fanno rispettare fosse diversa, i migranti non avrebbero bisogno di ricorrere a quei mezzi disperati.

Resi attenti a questo tema della verità si può inquadrare su un livello più profondo la visione del CIE, peraltro un pugno nello stomaco notevole. C’è una lunga sequenza con un giovane albanese dall’approccio estremamente teatrale nell’elencare i torti subiti (peraltro, stando a quel che dice, torti kafkiani); gli dice a un certo unto Montano, che è poliziotto nell’anima e probabilmente scettico per costituzione: «In Italia tutti fanno comizi», e ha ragione ci sono verità personali e psicologiche e ci sono verità oggettive: parte del tema dei migranti, sembra dirci il documentario, è andare alla verità del tema, che è diversa e più profonda delle verità dell’esperienza dei singoli, e ha a che fare con la dignità della persona umana non con le questioni, al fondo irrilevanti, se uno rubi o meno o scappi dalle torture o solo dalla fame. D’altra parte quel che conta, per ciascuno, è pur sempre dove gli fa male, come si barcamena nelle condizioni concrete nelle quali è messo, e in questo senso il senso del dovere espresso da Montano e dai suoi colleghi era esemplare.

Doveri e dibattiti

Dopo la proiezione c’era l’incontro con la regista (simpatica) e con alcuni operatori che lavorano a porto di Cagliari. Ho molto apprezzato gli interventi di Fernando Nonnis di Casa Emmaus, ma nel complesso il dibattito è stato piuttosto desolante, tanto più a fronte di quel senso del dovere e del sacrifico e della gravità delle situazioni che tutti i giorni al porto compaiono.

Ciò che nel documentario era chiaro, infatti (un dettato di legge, degli uomini in divisa chiamati a farlo rispettare, delle vittime della storia e i dettati contrastanti che la loro condizione pone alla coscienza di quegli stessi uomini), è diventato in poche battute etereo, indistinto, discutibile, interpretabile a piacimento, fra momenti in cui si spaccava il capello in quattro per chiarire chi avesse ragione nel descrivere le procedure, già bizantine di loro, sulla gestione dei migranti, e soprattutto mentre ci si rimpallavano responsabilità, che nascondevano, al fondo, la volontà di non farsi carico del problema (c’è sempre un rappresentante delle istituzioni locali, in questi casi, che fa il pianto greco sugli oneri dell’accoglienza per i Comuni).

Dovere. Mancava nel dibattito il senso del dovere. Teoricamente quella mancanza avrebbe potuto lasciare maggior spazio alla discussione sui dettati della coscienza; al contrario, non stimolata dal senso del dovere, anche la coscienza si eclissava.

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