Cose da terzo mondo!
Sabato a Nuoro ho visto le tre nuove mostre che sono state da poco allestite al MAN.
Delle tre, quella di pittura al piano intermedio (O Youth and Beauty!) non mi ha ispirato particolarmente: diciamo che i tre artisti mi sono sembrati tutti, appunto, piuttosto giovani e un po’ irresoluti (anche se vedo che Anna Bjerger in realtà è del 1973). Poi, oh, a sapere dipingere così e ad averne, di idee così, ma insomma, non credo che fra un anno mi ricorderò particolarmente di questa mostra.
E della installazione Sabir dell’artista israeliano-palestinese Dor Guez, un vero pugno nello stomaco, preferisco non parlare, se no finisce che questo blog lo chiudono per antisemitismo, coi tempi che corrono. Però, ecco, vederla è un atto civile necessario. Poi uno esce e va a ubriacarsi per dimenticare, che a Nuoro non dovrebbe essere difficile (a pochi passi dal MAN, in corso Garibaldi, ci siamo fermati a procurarci cose tipiche per far bella figura con gli ospiti che avevamo a cena a Orani: credo che il posto si chiami zia Marianna e mi sembra più che adatto a un cicchettino per tirarsi su).
Rimane la terza mostra, Sogno d’oltremare di un fotografo franco-ivoriano, François-Xavier Gbré, che mette insieme lavori precedenti dell’artista e altri frutto di una residenza artistica di alcuni mesi in Sardegna. Gbré è molto interessato alla irruzione del moderno (forse meglio: del contemporaneo) nei paesaggi urbani e rurali dell’Africa subsahariana nordoccidentale: ha lavorato in Mali, Senegal, Benin e Ghana. Quando parlo di irruzione intendo esattamente questo: paesaggi rurali dall’aria antichissima con in mezzo una rovina industriale, ambienti opulenti costruiti per essere segno dell’emersione del paese dalla inciviltà e ora abbandonati, ferite aperte a ricordo di ciò che poteva essere e non è stato, per non parlare di un racconto di meccaniche coloniali e del desiderio di uniformarsi a standard culturali (parentesi: c’è un pezzo sulla piscina di Bamako, in Mali. Una struttura monumentale finanziata dai sovietici, poi caduta in rovina e ora rifinanziata dai cinesi, che dice molto sulla storia recente dell’Africa senza darlo a vedere).
Insomma, per capirci: le foto di Gbré sono cose come questa
che documenta un palazzo di giustizia mai portato a termine in una capitale africana.
Solo che poi vedi le foto che ha scattato in Sardegna, incomprensibili ziqqurat nelle campagne di Oniferi legate a chissà quale realizzazione industriale mai portata a termine, oppure la dissoluzione interna inarrestabile dell’abbandonato hotel dell’ESIT sull’Ortobene, e sono uguali.
Come l’Africa.
Non faccio moralismo a buon mercato. Dico che Gbré fa una, non so come dire, recensione della parabola della industrializzazione della Sardegna, o di certe dinamiche di sviluppo, che è del tutto coerentemente artistica, senza cedimenti a contaminazioni politiche o di altro genere, ma contemporaneamente è precisissima e dice, sulla Sardegna, delle parole piuttosto importanti – per esempio, attraversa longitudinalmente la discussione sul colonialismo, direi. Una mostra piacevole esteticamete, che si visita rapidamente ma sulla quale poi col pensiero si torna spesso senza che induca al bere per tacitare il lavorio del cervello.
Non tanto, almeno, considerato che queste suggestioni africane non sono proprio rassicuranti.
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