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I più attenti e longevi seguaci di questo blog ricorderanno che quasi esattamente due anni fa, alla Jam del 2019, avevo fatto un gioco di nome The Law. All’epoca, in un articolo piuttosto esaustivo, avevo scritto:
Andrea e io ci stiamo già continuando a lavorare: vogliamo tradurlo in italiano (attualmente è in inglese), farlo girare non solo sotto Mac ma sotto Windows e anche Android e trovare una piattaforma dove metterlo a disposizione. Ci sono anche un po’ di errorini da correggere, qui e là.
Beh, l’abbiamo fatto. Ci abbiamo messo solo due anni, ma l’abbiamo fatto. Da ieri notte il gioco è disponibile su itch.io nelle versioni per i vari sistemi operativi da PC e su Play per i dispositivi Android (mi raccomando, scaricatelo e giocatelo e, se vi piace, condividete).
Devo dire che sono contentissimo e anche emozionato, lo dico sinceramente, del risultato. Fra fare giochi per diletto e fare giochi per diletto e pubblicarli su una piattaforma passa tutta la differenza del mondo. Il gioco è piccolino, è distribuito gratuitamente e in ogni caso se fa più di cento download stapperemo lo spumante, ma non è questo il punto, è la capacità di gestire un progetto e portarlo alla fine. Il passaggio è stato mediato dalla decisione di crearci un marchio comune per i nostri progetti, thisisnotafunnygame, del quale vi presento in anteprima il logo
Detto questo, e rimandando all’articolo originale per un racconto di come sia nato il gioco, dico un paio di cose con l’occhio di oggi, e non di due anni fa. Non sono proprio «motivi per i quali dovreste scaricarlo e giocarlo», sono piuttosto riflessioni che ho fatto quando, alla conclusione di tutto il lavoro, ho avuto quell’attimo finale di esitazione (che mi sono ben guardato dal dire ad Andrea, che però scommetto che ha avuto gli stessi pensieri) e mi sono dovuto ridire i motivi per i quali valeva la pena, compreso il rischio, del tutto umano, di sentirsi dire da qualcuno che il gioco fa schifo.
Ecco, la prima ragione è che il gioco rimane una affermazione politica piuttosto chiara, e che la volevo fare. È la sensazione che ho avuto quando qualche mese in fa l’ho ripreso in mano per correggerlo, e sono rimasto stupito oggi di notare che già due anni fa, come avrete visto, sentivo ugualmente il bisogno di giustificare questa scelta. Le affermazioni politiche dirette non sono propriamente nel mio stile, eppure in questo caso trovo che la forma di espressione scelta sia adeguata.
L’altro momento di esitazione è giunto dal notare come il gioco sia piccolo. In quindici minuti si finisce. Anche grazie al fatto che sono passato a usare Ink, un bellissimo programma per fare giochi narrativi che permette di concentrarsi sulla scrittura ignorando quasi tutto il resto, sia il gioco che abbiamo fatto alla Jam del 2020 che altri giochini che sto scrivendo adesso per testare i limiti della mia conoscenza del programma sono notevolmente più lunghi e più complessi. Eppure in The Law rivisto trovo che c’è quel che ci doveva essere, e va bene così.
La terza osservazione, che vedo avevo già fatto quasi uguale due anni fa, è che io e Andrea abbiamo avuto la fortuna di avere due co-autori bravissimi, Stefano Puddu per i disegni e Davide Melis per le musiche. Il gioco è soddisfacente perché c’è stato il loro contributo, ma il tema è un po’ più complesso: il gioco, qualunque gioco, è fatto di interazioni e questo deve comprendere anche l’aspetto visuale e auditivo, che ha dignità insieme alle regole, alle meccaniche e alla narrazione; un fatto che ora che stiamo preparando il secondo gioco e non abbiamo né disegnatore né musicista sentiamo acutamente.