Romanzo di giornata
L’altro giorno ho visto che su Netflix c’era La donna della domenica, che ricordavo appena, e ho deciso di vederlo.
Sardi, sardi ovunque
Una delle cose che mi ha colpito era la quantità di sardi stereotipati che compaiono già dai primi minuti. Non è che sia una cosa che non si è mai vista prima o dopo: ancora in Don Matteo o in Rocco Schiavone c’è l’immancabile sardo che va avanti, più o meno, a forza di capitto mi hai?
Qui però la cosa interessante era che ce n’erano tanti. Passi per i domestici delle prime scene, che sono giustificati dalla boutade del padrone di casa che rimprovera la moglie: «Non vanno bene neanche questi domestici? Ormai abbiamo provato ogni provenienza possibile: filippini, portoghesi, molisani e perfino sardi…», ma nel seguito mi sembrava che per tutta Torino ovunque si andasse, dappertutto comparisse un sardo che, beh, parlava in sardo.
Quella sera avevo sonno e me ne sono andato ben presto a dormire, nonostante la bellezza abbagliante di Jacqueline Bisset, la classe sorniona di Mastroianni e un cast sterminato di attori che dici: «Ma guarda, ma pure lui o lei, ma che simpatica, bello, brava, che caratterista coi fiocchi…».
Il giorno dopo, però, mi è venuta voglia di controllare se nel romanzo originale, che avevo letto davvero molti anni fa, ci fossero davvero tutti questi sardi oppure no. Poi in realtà il film l’ho rivisto la sera con Maria Bonaria e nella seconda visione ho notato con sorpresa che tutti questi sardi che popolavano Torino il giorno prima si erano dileguati nottetempo o trasformati in siciliani, ma insomma, ormai stavo leggendo.
Invecchiato quarant’anni in botti di acido
Non ho finito ancora la lettura ma il romanzo mi ha riservato varie sorprese fra le quali la principale è l’impressione che sia invecchiato parecchio peggio del film, il quale già mi pare abbia perso parecchia della carica provocatoria che doveva avere all’epoca (casomai, ora è interessante perché testimonia che all’epoca si era capaci di essere assai meno conformisti e reticenti di adesso – d’altronde la sceneggiatura è di Age e Scarpelli, mica pizza e fichi).
Se non ho capito male il romanzo era stato un caso di livello nazionale rispetto al quale il film, per quanto anch’esso di successo, aveva comunque il sapore di un’abile operazione di exploitation, che portava in superficie una dimensione nascosta in un certo senso eversiva del romanzo e la trasformava in linguaggio cinematografico – un giallo travestito da commedia satirica all’italiana, o una commedia satirica travestita da giallo – al prezzo di perdere tutto il ritratto d’ambiente di Torino e le riflessioni sulla città e il suo peculiare stile di vita.
Il problema è che tutto oggi si è capovolto: laddove il tono da commedia all’italiana funziona almeno in parte anche oggi e quindi il film mantiene una sua ragion d’essere, invece a distanza di tempo quel ritratto di città prevalente nel romanzo appare noiosissimo, verboso, molto manierato, denso di autocompiacimento e immerso oltretutto in un brodo filosofico-psicologico ormai stantio. L’umorismo d’epoca si è stemperato e ha acquisito un sapore terribilmente conservatore, l’aria di rivolgersi continuamente al pubblico benpensante dell’epoca, che poteva sogghignare scuotendo il capo: Che tempi, Contessa, che tempi.
In realtà il romanzo è interessante quando le note di costume sono non volute, e raccontano l’epoca senza giudicarla: il parrucchiere che legge libri ricorda di sfuggita che quella è stata l’epoca nella quale le classi popolari sono state ammesse alla cultura, il resto del chiacchiericcio dell’episodio non dice più niente, e blandamente irrita.
Si tratta, in realtà, di difetti superabili se uno è disposto, ogni tanto, a saltare qualche pagina (o molte pagine) quando lo sbrodolamento sulla torinesità si fa eccessivo o il commissario annega definitivamente nel soliloquio psicanalitico. O se non si sofferma troppo sul retrogusto gretto di molta ironia fatta, diciamo così, sui costumi. Perché nei momenti intermedi la scrittura di Fruttero e Lucentini è piacevole, soprattutto quando passa dalla descrizione all’azione e ai dialoghi, e l’operazione di introdurre nella letteratura italiana il genere è senza dubbio interessante .
O forse no.
O meglio: è senza dubbio un’operazione interessante, simile a quella che avrebbe fatto successivamente Eco, con ben altro peso, nel Nome della rosa. E però gli strumenti letterari usati da Fruttero e Lucentini, che all’epoca dovevano parere scintillanti e modernissimi, ben legati alle proposte dell’avanguardia, oggi appaiono un po’ bolsi (e gettano una luce negativa, in realtà, su altre operazioni letterarie simili, a partire proprio da Eco, e sull’ironia di una caterva di opinionisti di costume successivi, fino a Serra e Gramellini, che scrivono esattamente allo stesso modo, fanno appello, mutatis mutandis, allo stesso sentimento borghese e che probabilmente, fra trent’anni, ci sembreranno irritanti allo stesso modo).
Quello che pesa di più, in realtà, è il bozzettismo. La bella galleria di comprimari, sospetti e semplici passanti sembra più volte creata anche (o soprattutto) per richiamare fatti e persone di attualità dell’epoca e cucirli dentro il romanzo. Le cuciture sono fatte con grande abilità, ma il sapore è quello di voler fare costume a tutti i costi, introducendo un gioco con il lettore saputo (di primo o secondo livello, boh), soprattutto se torinese, che riconosce i vari episodi e situazioni e soprattutto sa individuare Tizio nell’americanista Bonetto, Caio nell’industriale e Sempronio nel monsignore, un gioco che oggi che tutta questa gente è morta e sepolta non ha più nessun significato e sembra solo far intuire un puntuto regolamento di conti fra conoscenti, tanto che alla fine La donna della domenica non sembra più il precursore del Nome della rosa, quanto del pettegolezzo dietro le spalle di Sotto il vestito niente.