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Film a metà – 1

Lei (Spike Jonze, USA 2013)

A dir la verità non ho visto Lei. Ho visto Her (cioè l’edizione originale inglese, sottotitolata in italiano) al cinema Odissea in una imprevista visione in lingua originale.

Può darsi che questo spieghi in parte una certa fatica che mi ha causato la visione: ho anche la sensazione che forse il film sia un po’ troppo lungo e che avrebbe potuto senza danno essere accorciato di un buon quarto d’ora. Per il resto Her è uno di quei film il cui gradimento dipende dall’approccio dello spettatore: se a uno piacciono le storie sentimentali che mettono al centro l’incomunicabilità, i silenzi, i moti del cuore, le piccole dinamiche che l’amore ha nella nostra vita, rifuggendo da melodrammi, struggimenti e colpi di scena, storie ben scritte e benissimo recitate, Her è il film per lui (e, più probabilmente, per lei, o per loro). Sono storie viste mille volte, ma Joaquin Phoenix merita certamente di essere apprezzato e la storia ha un taglio, quello dell’amore fra un uomo e una intelligenza artificiale femmina, sufficientemente innovativo da non far notare che Her è in fondo un film del quale esce il remake ogni anno (di solito c’era sempre Richard Gere e lei aveva una malattia incurabile, ma ci sono state versioni in cui lei era Julia Roberts e lui aveva una malattia incurabile: anche qui, in fondo, lei ha una malattia incurabile: non è un essere vivente).

Her è un film sottilmente fantascientifico (niente astronavi, una fantascienza molto prossima) in cui la messa in scena inusuale aiuta molto a mantenere l’interesse degli spettatori: e il tema fantascientifico è sostenuto da una miriade di particolari di sceneggiatura, tutti ben pensati, curatissimi, che concorrono molto al successo del film. Ma, attenzione, il successo richiede che si prenda il film per quello che è: la storia di un uomo in crisi che attraverso un nuovo rapporto, peer quanto difficile, esce da un sonnambulismo sentimentale e torna a provare emozioni.

Her è anche un film molto yuppie, e qui cominciano i problemi. Intanto, film di questo genere devono essere yuppie: francamente tutta questa sospensione, incomunicabilità e gelo nei rapporti umani sono tipici di chi non ha il problema di mettere insieme il pranzo con la cena; anche nei film di Richard Gere con le tizie che stanno per morire ci troviamo sempre a Manhattan o in posti dove il lavoro meno remunerativo è fare lo stilista: certo Her non è il tipo di film che avrebbe potuto girare Ken Loach. Temo che questa ambientazione così naturale possa indurre qualcuno a pensare che Her sia un film sugli yuppies, sulla qualità dei rapporti fra quarantenni single e semi-single opulenti: solo che sullo yuppismo tutto quel che si poteva dire è già stato detto da un bel po’, e in questo senso da interessante esercizio di stile da una prospettiva insolita Her diventerebbe una rimasticazione furbetta di cose che erano innovative vent’anni fa (e American Psycho le diceva con altrettanta furberia ma in maniera molto più inquietante).

Lo stesso discorso vale se si provasse a considerare Her un film di fantascienza puro, cioè un discorso sul futuro. Perché per quanto intrigantemente dettagliato – pendolari che percorrono chilometri di gallerie di spazi pubblici ognuno parlando con il suo apparato tecnologico personale, migliaia di conversazioni fianco a fianco in cui l’interlocutore non è mai la persona a fianco, e spesso non è neppure umano, le pennellate molto efficaci sui sistemi di intrattenimento casalinghi, così pervasivi – per quanto intrigantemente dettagliato dietro a tutti questi particolari non c’è niente, non c’è un tema complessivo, l’apparenza di una idea dello sceneggiatore.

Così, tirando le somme di tante dimensioni diverse – il film sentimentale, l’osservazione sociologica, la fantascienza – alla fine Her lascia l’impressione di un prodotto un pochino studiato a tavolino, un po’ cinefilino, un tantinello intelligentemente rivolto ai critici che ci possano trovare gli elementi per gridare all’evento e soprattutto ai giornalisti perché ci costruiscano il caso sui tempi moderni, l’universo e tutto quanto. È un film leggero, quasi impalpabile, quindi anche il sospetto fatica a sostanziarsi e a raggiungere la dimensione di prova provata, però rimane e cresce col ricordo man mano che ci si allontana dalla visione.

Post scriptum

Scarlett Johansson, ovviamente, essendo un’intelligenza artificiale non compare mai, lavora solo con la voce fuori campo. A me è parsa bravissima, ma mi sono chiesto quanto della sua efficacia dipenda dalla coscienza extradiegetica da parte dello spettatore del fatto che la proprietaria di quella voce è una gran sventola, per così dire. Detto in altri termini, se a fare la voce di Samantha fosse stata Whoopi Goldberg, con tutto il rispetto, avrebbe avuto lo stesso effetto (in Italia non a caso è stata scelta Micaela Ramazzotti)?

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