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Il giardino delle sediette

Ho visto ieri per la prima volta in teatro, dopo un inconsapevole ritardo di tutta una vita e con un vago senso di colpa che mi accompagnava dal 2016. L’allestimento era quello di Alessandro Serra (lo stesso regista della tragedia scozz… barbaricina), presentato al Teatro Massimo in prima nazionale (ma la nostra era già una delle prime repliche.

Avevo, basandomi sulla stima per quel che avevo visto in Macbettu, delle grandissime aspettative, forse perfino esagerate. Al termine dello spettacolo, mentre applaudivo convinto ero magari un pochino deluso. Lo spettacolo è molto bello, l’allestimento molto riuscito, la gestione dello spazio scenico e delle luci – con dei cromatismi straordinari – magistrale, ma per lunghi tratti della prima parte (il primo atto che riunisce i il primo e secondo atto originari) mi è mancato forse un briciolo di energia (o di colpo allo stomaco) in più.

Serra gioca sull’ambientazione nella stanza dei bambini della casa nella quale sono ambientate le prime scene, usando come unico strumento scenico, a parte qualche tavolino da tè, una serie di sedie, sgabellini e seggiolini tutti lievemente troppo bassi perché gli attori vi si siedano in pose, diciamo così, da adulti, e interrompe continuamente i dialoghi fin troppo impegnativi di Čechov con improvvisi momenti nei quali gli attori prendono, piantano tutto e iniziano trastullarsi come ragazzini, come se in fondo non fossero mai usciti da quella stanza e da quell’età.

Sono due metafore piuttosto potenti, che suggeriscono con forza l’idea di questi aristocratici e del loro entourage che, di fronte alla rovina imminente, non sono capaci di uscire dal loro infantilismo col suo corollario di vizi, debolezze, sperperi, menzogne autoassolutorie, divagazioni, fantasie iperboliche, e quindi sono incapaci di prendere atto della realtà. O magari suggeriscono l’idea del valore affettivo che ha la casa, nella quale sono stati bambini spensierati e felici. O ancora, incarnano il desiderio di tornare a essere protetti nel bozzolo dell’infanzia, al sicuro dal mondo terribile che sta fuori.

Io preferisco la prima ipotesi, ma probabilmente sono tutte vere.

Per quanto potenti, però, le due metafore non riescono completamente a creare unità nella materia drammatica e a dare conto dei discorsi da adulti che i personaggi fanno e dei comportamenti che hanno, e ogni tanto sembrano gestite in maniera piuttosto forzata: al momento dell’intervallo mi dicevo che mi aspettavo, per la seconda parte, un’idea o un gesto che riassumesse tutto e facesse coagulare tutte le varie divagazioni in un’unica materia. Una specie di coniglio dal cappello, forse.

Invece nella seconda parte Serra sceglie un altro approccio, e cambia tono facendo entrare attori e spettatori in una lunga galleria tragica in cui il senso doloroso si rivela sempre più sopraffacente, fino a recuperare le sediette, in una catasta finale, come simbolo della tristezza e desolazione calate sulla casa ormai diroccata.

C’è nella seconda parte un lavoro sulle luci, le ombre e i materiali notevole, che accentua la sensazione – a seconda che lo spazio acquisti più o meno profondità – di stare assistendo a una specie di recita dentro una casa di bambole o di vedere come un quadro impressionista che diventa tridimensionale. Poi improvvisamente le luci virano al freddo, non più ai gialli e bianchi opachi visti fino a quel momento, e siamo fuori, in mezzo alle cataste di materiali degli operai, quando il muro viene abbattuto. È un lavoro notevole che accentua il senso di lutto e di disperazione ed è davvero molto, molto bello.

Però è anche un po’ più facile, in un certo senso. La prima parte, che magari mi è sembrata meno riuscita, però affronta e tenta di dar conto di tante sfumature: qui la cifra interpretativa è unica (e, peraltro, secondo me corretta, considerato quel che Čechov ha messo nell’ultima scena).

Le ragazze sedute davanti a noi, bontà loro, hanno trovato lo spettacolo un po’ lento. Mi sono commosso pensando che quando andavamo al cinema trent’anni fa e più si usava la stessa blanda espressione per catalogare i film drammatici tedeschi e le commedie psicologiche francesi, per dire che non ci erano piaciuti senza fare brutta figura con gli amici cinefili. A me è sembrato invece un solido pezzo di bravura teatrale con delle idee molto interessanti, attori bravi, una seconda parte che acchiappa il cuore e lo strangola progressivamente e…

… ah, dimenticavo. A me le questioni sociali proposte da Čechov, nella resa che ne fa lo spettacolo, mi sono sembrate richiamare un sacco di tematiche contemporanee, ma proprio pari pari.

… e per niente invecchiato dal punto di vista sociale ma ricco di richiami alla contemporaneità.

Resta al Massimo anche oggi e domani: immagino che qualche biglietto ci sia ancora, e consiglio di andarci.

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