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Verso una società neo-oligarchica? Un intervento di Nicolò Migheli

Oltre che su questo blog questo articolo viene pubblicato anche sui siti di Fondazione SardiniaAladinpensiero, Tramas de amistadeSardegna Soprattutto, Sportello FormaparisTottusinpari e sui blog di Enrico Lobina, Vito Biolchini e Francesca Madrigali.

Verso una società neo-oligarchica?

di Nicolò Migheli

diseguaglianzaLe primarie del PD per la candidatura alla presidenza della Regione Veneto confermano la tendenza all’allontanamento dall’esercizio del voto della maggioranza dei cittadini. Nelle elezioni dell’Emilia Romagna è successo che solo il 38% degli aventi diritto si siano recati alle urne. In una regione dove la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica è incredibilmente alta. Ilvo Diamanti in una analisi del dopo voto, scriveva che le regioni non vengono più sentite dai cittadini come luoghi essenziali dell’esercizio democratico. La causa? Molto sarebbe nel malcostume e negli scandali. La politica come luogo della soluzione dei problemi personali di chi vi è impegnato e dei gruppi di riferimento. È indubbio che anche queste considerazioni abbiano il loro peso. Però il distacco dei cittadini dalle istituzioni e delle loro rappresentanze sembra avere ragioni più forti, aspetti della vita pubblica che si avviano a diventare strutturali. Lo studio Gini-Growing inequality impact realizzato dalla UE nell’ambito del VII Programma quadro, è esplicito: l’indice di ineguaglianza in Italia è secondo nell’Unione solo dopo la Gran Bretagna. L’Unione delle Banche Svizzere racconta che nel 2014, in Italia i miliardari sono cresciuti. Erano 29 nel 2013 con una ricchezza complessiva pari a 97 miliardi di euro, adesso sono 35; la ricchezza è cresciuta di 53 miliardi raggiungendo la somma di 150. Tutto questo mentre la disoccupazione ha raggiunto il 13% e tra i giovani il 43. L’indice di ineguaglianza che nel 1992 era di 0,27, in linea con i principali paesi europei, ora è di 0,34. È interessante notare che tutto comincia con l’avvento delle privatizzazioni che si sono trasformate in monopoli di pochi gruppi finanziari. Non solo. Immediatamente sotto di loro, vi è una élite che non ha sofferto della crisi, garantita com’è da rendite e privilegi. A questo è corrisposto un progressivo impoverimento dei ceti medi, l’affacciarsi di generazioni precarie dei contratti giornalieri, impediti a costruirsi un futuro decente. Una atomizzazione dei rapporti di lavoro, una costrizione nel problema individuale che impedisce di pensare a se stessi come facenti parte di gruppi più vasti con diritti e rivendicazioni comuni. Ributtati in un Ottocento senza Società di Mutuo Soccorso, senza neanche il sogno della palingenesi socialista, uccisa prima che dal proprio limite, dalla vulgata del darwinismo sociale neo liberista. L’unica condizione possibile in una società del tutti contro tutti. A questo poi si aggiunge che un governo soi disant di sinistra per bocca del ministro Alfano dichiari che il Jobs Act è politica di destra, confermando una sorta di intercambiabilità tra i poli nel perseguire le stesse riforme. La politica cessa di essere strumento del cambiamento. Destra e sinistra di governo seguono le indicazioni di gruppi minoritari legati alle istituzioni internazionali non elette come l’FMI, soggette al potere ricattatorio del capitale finanziario che non conosce frontiere, che si sposta dove c’è la massima remunerazione a breve. Le riforme costituzionali e quella elettorale diventano il quadro in cui incardinare il potere di gruppi che tendono a diventare inamovibili. Mario Monti in una riunione della finanza internazionale a Milwaukee negli Usa, nel settembre del 2013, ebbe a dichiarare: ”Il vero problema dell’Italia consiste che si vota troppo spesso e sono ancora in troppi a votare.” Più che una profezia che si auto-avvera sembrerebbe la realizzazione di un lucido progetto. Robert Michels sosteneva che il non votare è, in certe condizioni, l’unico modo per esprimere il dissenso, ma l’allontanamento dei cittadini dal voto finisce con il perseguire il disegno di quelle èlite. I partiti trasformati in comitati elettorali diventano la cinghia di trasmissione di decisioni prese altrove e le istituzioni delle mere esecutrici. Un disegno chiaro di neo oligarchia, a cui si accede in pochi, solo quelli che hanno rapporti con la finanza e le istituzioni sovranazionali, che potranno essere cooptati dove si decide. Un progetto neo napoleonico che contempla gli ottimati, l’inclusione per censo o per appartenenza al gruppo. Una stratificazione sociale che per reggersi dovrà farsi autoritaria, avendo poco da distribuire. In un quadro simile i movimenti xenofobi e neonazisti hanno davanti a sé spazi ampi di manovra nell’indicare i nuovi capri espiatori nei migranti e nei rom; creando ed alimentando sospetti e paure, diventando così funzionali al mantenimento dello statu quo. Chi è in difficoltà cerca le sicurezze, e una società autoritaria le offre. Una prospettiva senza scampo? Per ora sembrerebbe di sì. In realtà molto si muove. In Spagna Podemos, raccogliendo le proteste degli Indignados di Puerta del Sol, viene dato vincente alle prossime elezioni di primavera. Podemos ha una piattaforma di democrazia partecipativa, riscopre la lotta di classe contro le nuove oligarchie. In Italia invece nulla. La sinistra sembra incapace a reagire alla sconfitta che le ha inflitto il governo Renzi. Governo che, con il suo centralismo romano, apre possibilità politiche interessanti per chi rivendica il diritto di autodecisione in Sardegna. Per ora però poco si muove. Dovremmo attendere che la Riforma della Costituzione cancelli l’Autonomia? Se è così basterà attendere la primavera. Noi siamo specialisti nel chiudere la stalla quando i buoi sono già fuggiti.

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