Mad Max: Fury Road, o dello sfuggire al controllo
Dice mia sorella che io passo al pettine fitto i film d’autore bogandone pinnicche, come direbbero al mercato di San Benedetto, trovandoci dentro mille difetti e difettucci, e poi mi faccio piacere filmacci come Mad Max: Fury Road.
Ora, affrontare seriamente questa critica vorrebbe dire entrare in una discussione su cosa sia il cinema, raccontare che in fondo gli effetti speciali iniziano con i fratelli Lumière, ricordare che il cinema esplora le narrazioni di genere fin dalla sua fondazione e rivendicare in generale l’importanza della narrazione coinvolgente: tutte cose che richiederebbero pagine web su pagine web di ragionamenti ben al di là delle mie competenze e nelle quali perciò preferisco non addentrarmi.
Mad Max: Fury Road (George Miller, USA)
Però è vero che Mad Max: Fury Road mi è piaciuto davvero parecchio, tanto più perché l’ho visto in una situazione in fondo abbastanza peculiare: rimasto a dormire a Roma fra un impegno di Banca Etica e un ritorno a casa impossibile, con la voglia di staccare da tutto, in un multisala vicino a Stazione Termini dotato di bagni degni dei peggiori bar di Caracas, circondato da improbabili coppiette a metà fra il nerd e il fighetto (a dimostrazione, credo, che la franchise ha un suo seguito di culto spesso insospettabile).
E mi è piaciuto parecchio, ma forse l’ho già detto.
Su Mad Max: Fury Road la recensione definitiva l’ha fatta Leo Ortolani, e io in realtà non avrei nulla da aggiungere sul film in sé, quindi non dovrei far altro che consigliarvi di farvi due risate sul sito di Ortolani e poi di correre al cinema, ma su tutto il contorno qualcosa da dire ce l’ho.
Fuori controllo
Ora, il film è evidentemente fuori controllo, fuori dalle righe. Ho dato un’occhiata alle recensioni in rete e il tema ricorrente è questo: il film è… appunto, fuori. Ortolani ci ironizza sopra lavorando sul contrasto fra ciò che ci si poteva aspettare dall’età del regista e ciò che è il risultato, io durante la visione mi sono chiesto continuamente come sia potuto succedere.
Voglio dire, il film viola una mezza dozzina di tabù del politicamente corretto attuale: a partire dal fatto che l’oggetto della contesa fra buoni e cattivi è il possesso di una mezza dozzina di belle figliole, riproduttrici (sic) di lusso destinate all’harem del capo, fino al fan service che fa recitare le suddette figliole praticamente in bikini per tutto il film (peraltro, in maniera narrativamente abbastanza coerente), dall’improntitudine con la quale è proposto il tema dello sfruttamento dei corpi altrui (la “sacca di sangue”, il cesareo per impadronirsi del bambino, gli schiavi) all’insistito cattivo gusto con cui si propongono insetti e rettili come snack: Mad Max: Fury Road è un film, secondo i canoni attuali, violento, sessista e perfino reazionario, lo è mentre si permette di sbeffeggiare chi non è d’accordo, eppure è stato prodotto e promosso con grande dispendio di mezzi da una major, non da una picocla casa di produzione indie.
Mi è sembrato notevole, e sorprendente: se poi sia un segno dei tempi, se voglia dire che la narrazione di genere riprende magari a essere un po’ più anarchica, un po’ più eversiva, non lo so; mi limito a registrare la sorpresa.
Western si, ma…
Leggo in giro che i padri nobili di Mad Max: Fury Road andrebbero cercati nel western. Mi pare un giudizio esatto, a condizione che si tenga presente che è una filiazione che pur risalendo a John Ford e a Ombre rosse passa attraverso Peckinpah e Walter Hill (durante il film ho pensato spesso a I guerrieri della notte, ma forse il riferimento maggiore è a film come Driver l’imprendibile e Getaway!) ed è proprio l’analisi di questa linea di discendenza e dei risultati ottenuti da Miller a gettare un altro po’ di luce su questa storia del “fuori controllo”. Voglio dire che la scelta dei registi degli anni ’70 è quella a un tempo di destrutturare il genere e di scegliere un registro anti-epico, ed è una scelta che influenzerà buona parte degli altri generi: polizieschi, guerra, fantasy, avventura classica. Ciò che perdono sotto questo punto di vista è più che compensato dall’essere in assoluta sintonia col sentire di una generazione; nel frattempo la dimensione epica rimane affidata episodicamente non alla struttura filmica ma alla presenza di icone caratteristiche: Schwarzenegger, Eastwood, Stallone, Ford, la Weaver, Connery, Gibson. Ma molti dei film di genere attuali non “parlano” più al cuore di una generazione, non hanno sufficiente scrittura o tematiche di fondo a cui affidarsi e neppure i protagonisti carismatici, e infatti devono cavarsela con gli effetti speciali o con l’adrenalina di scene d’azione sempre più insistite e complicate.
Rispetto a questi Miller è un po’ costretto a barcamenarsi: recupera dal genere classico la capacità di proporre caratteri e situazioni sbozzati con l’accetta ma efficaci: se in Ombre rosse c’erano la Ballerina, il Biscazziere e così via, qui c’è la Ragazza Fragile, il Giovane Senza Futuro, la Vecchia dei Semi e quella Che Spara Diritto e così via: qui siamo nel campo dell’epica classica. Eppure non basterebbe al film, perché rimarrebbe un minimo di incompiutezza: alla dimensione dei personaggi non corrisponde una efficacia equivalente della trama, un concetto portante che faccia da motore: ci sono degli abbozzi (la maternità, il posto dove ricostruirsi una vita, il futuro, la fuga, ma non sono sviluppati a sufficienza).
Ma questa sarebbe stata la soluzione alla Ford, giusto? Una roba datata.
Certo, però Tom Hardy, nei panni di Mad Max, non è carismatico come, che so? Stallone in Rambo. E quindi non possiamo cavarcela nemmeno con l’attore-icona. D’altra parte la sua caratterizzazione fra lo spaesato e l’isterico è molto buona e quindi non può essere tutto un problema suo.
Parla al cuore di una generazione, questo film? Onestamente non credo, almeno non del tutto: forse apre una strada, ma nel caso siamo molto all’inizio.
E quindi alla fine il film un po’ potrebbe zoppicare. Solo che Miller non lo fa camminare, ma volare, e la zoppia non riesce a manifestarsi quasi per nulla: rimane un film di cui diresti che gli manca un soldo per fare un denaro se non fosse che è così fuori che davvero non sai cosa dire se non restare a bocca aperta.
In realtà, andando via dalla sala mi chiedevo se non fosse questa la strada che indica, al genere: andare oltre i limiti, oltre le convenzioni, non per essere in sintonia col pubblico, come dicevo prima, ma come nuova soluzione puramente narrativa: spezzare i confini per trovare qualcosa di nuovo da dire, andare fuori e oltre per vedere se le storie, raccontate in questo modo, cambiano così come cambiarono negli anni ’70.