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Bene mortu

In paese una volta avvisarono il tale che era stato ucciso uno, che era suo rivale.

E lui, imperturbabile, rispose: «Bene mortu, bene mortu!». E precisò: «Fio po l’occhider deo, una de custas dies». Lo stavo per uccidere io, uno di questi giorni.

Poi, come a compensare, aggiunse: «Comunque sono brutte cose. Io me ne sello l’asino e me ne vado in campagna».

Bene mortu (con o senza accompagnamento della storia dell’asino) è, o almeno è stata, una delle frasi del nostro lessico familiare, usata volta a volta per indicare ipocrisia, cinismo, disprezzo per i rivali o semplice improntitudine. Non so bene da dove venisse l’episodio, ma presumibilmente era stato raccontato per la prima volta a qualcuno delle generazione precedente a quella di mia madre, cioè doveva essere un episodio di cui mio nonno era stato testimone o che gli era stato riferito o che era capitato ancora prima ma era vivo ancora nella memoria (mio nonno prima del mestiere delle armi aveva frequentato tutto un ambiente di avvocati nuoresi, ed è lì che probabilmente la storiella ha origine).

Mi sono ricordato l’espressione bene mortu, l’altro giorno, riflettendo sul fatto che ogni tanto mia sorella si lascia sfuggire con le figlie racconti sugli adulti che noi abbiamo conosciuto, sulle avventure di cui siamo stati testimoni o che abbiamo vissuto, comprese le deviazioni dalla morale degli adulti. Cose che magari non sono proprio proprio educative, ma sono storie di famiglia e ogni tanto saltano fuori.

E mi sono reso conto che sono tutte storie piuttosto diverse. Intanto sono in generale storie urbane. E poi sono molto meno materiali (ci sono poche cose più materiali o carnali dell’omicidio). Al contrario delle storie familiari che hanno popolato la mia giovinezza non ci sono scherzi feroci che potevano finire molto male, non ci sono delicati equilibri di relazioni sociali e situazioni potenzialmente molto pericolose, non ci sono bisnonni minacciati dai banditi, non ci sono omicidi. Non c’è la morte.

Non c’è la guerra, per dire. Anzi: due guerre. Non ci sono zii mai conosciuti travolti dalle vicende della storia e nonni che non sono mai stati tali perché sono morti in guerra e nonna poi ha sposato un altro. Non c’è la differenza fra commilitoni di cui raccontava il Mitico Pino, di chi sparava in aria e chi no. Non ci sono salvataggi di disertori prima che vengano deportati dai tedeschi, vite trasferite all’estero in cerca di salvezza, gente che si abbraccia credendo che l’altro stia per essere portato davanti al plotone d’esecuzione e invece tutti e due tanno per evadere da Regina Coeli.

Non c’è la fame.

Nomi di persone, modi di dire, frasi idiomatiche della mia famiglia, fino alla mia generazione, hanno fatto riferimento a contenuti come questi.

È, mi veniva in mente, l’allontanarsi dalla società della sopravvivenza, che quando io avevo l’età di Agnese era ancora una presenza magari lontana ma tangibile. Adesso la società contadina è un fantasma di cui non si racconta quasi nemmeno più, come più o meno sarà presto anche la civiltà industriale.

Non avevo mai misurato con tanta chiarezza la distanza.

Altro che il computer che uso per scrivere questa storia.

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