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Grandi speranze

Per una strana coincidenza proprio nel periodo in cui sto guardando la versione BBC 2011 di Grandi speranze è uscito al cinema il film (di Mike Newell) basato sullo stesso romanzo di Dickens. L’ho visto ieri con moglie e nipoti e l’occasione si offre dunque per una recensione incrociata.

La trama

Non ho letto Grandi speranze (Great expectations, scritto a puntate da Dickens nel 1860-61), quindi il mio riassunto è basato sulle due versioni di cui stiamo parlando, che chiaramene condensano e adattano la trama. In breve, comunque, seguiamo le vicende di un orfano, Pip, che dalle natie paludi del Kent e dall’umile fucina di un  fabbro (il cognato) si trasferisce a Londra per inseguire il sogno di divenire un gentiluomo e di sposare Estella, la bellissima e spietata protetta della signorina Havisham, una bizzarra nobile del luogo in cui è cresciuto Pip e che ha preso un certo interesse per lui. 

Frammiste alla storia del divenire adulto di Pip ci sono avventure e colpi di scena di ogni genere, agnizioni, omicidi, deliquenti deportati in Australia, magioni in rovina, algidi avvocati, fortune guadagnate e dilapidate, amicizie fedeli, amori contrastati e, come sempre in Dickens, tutto un campionario indimenticabile di varia umanità.

Great expectations è un romanzo di formazione e una bella storia d’amore, ma anche una riflessione sulla paternità e la maternità, sulle ambizioni personali e perfino, in qualche maniera, sulla qualità del sogno – e, dopo la doppia visione, passa di diritto in cima alla lista delle prossime letture: ho infatti l’impressione, e questa in parte è già tutta la recensione, che il libro sia di quelli che resistono a ogni adattamento  cinematografico e rimangono, in fin dei conti, un’altra cosa.

Il Grandi speranze di Mike Newell

Filmare un romanzo notissimo, e già più volte portato sullo schermo, è un po’ come firmare la regia di un’opera lirica: ci si deve concentrare su tutta una serie di luoghi comuni, già noti al pubblico, oppure stravolgere l’opera per darne la propria interpretazione, o trovare un qualche compromesso intermedio.

Newell sceglie una via di mezzo, non proprio fortunata: è forzato a condensare la trama per stare nei tempi standard della sala, eliminando sottotrame importanti e concentrandosi sulla storia d’amore (a costo di tradire lievemente il finale originale – oltretutto pubblicato da Dickens in due versioni) e sulla messa in scena, con una bella resa della Londra vittoriana. Il tema della paternità emerge in ogni caso, quasi da sé, col contrasto fra la signorina Havisham e Magwitch (e con quello, speculare, fra l’avvocato Jaggers e Joe Gargery), ma complessivamente il film non emoziona (quasi) mai, come se la trama, anche condensata, fosse così ingombra di cose da non lasciare il tempo al regista di concentrarsi su un aspetto in particolare su cui far cadere l’accento delle passioni e dei sentimenti.

Anche così, comunque, la forza dell’intreccio e dei personaggi è tale da trascinare lo spettatore (soprattutto quello, come me, che non avendo letto la storia forse non coglie del tutto i tradimenti e le reinterpretazioni della trama).

Lo sceneggiato BBC

Con tre puntate a disposizione (io ne ho viste due) lo sceneggiato ha modo di far emergere maggiormente tutte le sfumature della trama, per esempio il tema del rifiuto di Pip delle sue origini e la successiva (immagino) riconciliazione con l’ambiente rurale da cui proviene. È interessante il confronto fra gli interpreti: la signorina Havisham di Gillian Anderson mi pare valere quella di Helena Bonham Carter, sono migliori invece qui il protagonista e Jaggers (David Suchet, perfetto). Qui come nelle sale Estella non mi pare sufficientemente bella da giustificare l’aura di golem spezzacuori destinato a vendicare la signorina Havisham sul genere maschile con cui è presentata.

Anche la serie ha i suoi problemi, peraltro: un andamento che vorrebbe essere maestoso e che talvolta è semplicemente lento, e un certo ermetismo narrativo che non chiarisce mai del tutto ciò che passa nell’animo di Pip e degli altri protagonisti. Può darsi che l’ambiguità sia anche nella pagina scritta (o che scompaia con gli scioglimenti della terza puntata), a me è parsa una scelta narrativa non troppo felice.

Bellissima anche qui, peraltro, la messa in scena, con uno spazio maggiore dato anche alle paludi del Kent – e una loro interpretazione in chiave maliconica e nebbiosa, rispetto a quella solare del film – un ambiente suggestivo che non ricordo di avere mai visto sullo schermo e che ha un suo fascino inimitabile.

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