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La dubbia sussidiarietà

Il mese scorso ero all’Università di Deusto, in Spagna, per un breve periodo di visita nell’ambito del programma Erasmus for staff.

Si tratta di una università – privata – fondata dai Gesuiti e perciò con una forte impronta religiosa. Per di più è un ateneo relativamente piccolo, circa diecimila studenti, e concentrato in tre-quattro grandi edifici che comprendono tutti i servizi necessari: la definizione di campus è abbastanza precisa anche se non c’è un vero e proprio recinto universitario.

Bene, un giorno ho visitato la sezione dell’amministrazione universitaria dedicata alla, diciamo così, animazione del campus. La suddivisione in settori di attività è comprensibile solo con le premesse che vi ho detto: c’è una forte componente identitaria e una stretta adesione al progetto educativo di base, quindi per esempio un settore specifico è dedicato a fede e pastorale e un altro alla solidarietà sociale e al volontariato, accanto a settori più convenzionali come sport e cultura.

Il fatto, però, è che a un certo punto mi hanno detto il loro budget e i risultati che raggiungono con le risorse a disposizione, e sono rimasto molto sorpreso: si tratta di risultati imponenti con uno staff di quattro persone, alcuni studenti collaboratori come quelli che esistono anche a Cagliari e risorse economiche abbastanza esigue, certamente inferiori a quel che da noi diversi enti (la nostra Università, il CUS, l’ERSU, eccetera) dedicano collettivamente a servizi simili.

Con uno staff dedicato, certo, quindi nei costi andrà computato il personale. E il numero degli studenti da servire è molto inferiore. Anche così però ho l’impressione che il dato fosse abbastanza significativo.

Un altro elemento che mi ha colpito è che le associazioni universitarie, tutte grosso modo coordinate dal servizio di animazione del campus, non ricevono un euro di contributi: sono tante, attive e piuttosto variegate, compreso un gruppo alpinistico, per dire, ed è palese che vengono fortemente incoraggiate e sostenute – solo che, se non ho capito male, fra le forme di sostegno quella economica non è prevista.

L’ho trovato un curioso capovolgimento del modello, e stimolante: nella nostra università pubblica italiana si applica infatti, sostanzialmente, una forma di sussidiarietà: le associazioni ricevono denaro per fini che l’ente pubblico considera desiderabili e poi decidono più o meno autonomamente come utilizzarli. La cosa curiosa è che il principio di sussidiarietà è una elaborazione nata anche all’interno del mondo cattolico (perché protegge l’autonomia dei corpi sociali intermedi, come le comunità religiose, dall’interventismo statale) ma Deusto, che è una università con una forte impronta identitaria, sceglie invece un modello diverso.

Il problema è, a occhio, che dal punto di vista dei risultati, o perlomeno del rapporto costi-benefici, hanno ragione loro, che ottengono con meno fondi risultati maggiori, il che oltretutto sembra negare un altro degli assiomi spesso enunciati dai teorici della sussidiarietà, e cioè che permettendo ai corpi intermedi di autorganizzarsi si ottengano, in generale, risultati migliori di quelli ottenibili con l’interventismo statale diretto.

Ho continuato a rifletterci nei gironi seguenti e mi sono convinto che l’apparente discrasia dipenda da un modo insufficiente di considerare la ricchezza. Se se ne ha una idea esclusivamente economica, o monetaria, allora è evidente che il trasferimento di ricchezza a favore delle associazioni studentesche è maggiore in una media università italiana che a Deusto. Ma ai tempi di Nuove Officine ci eravamo addestrati a imparare a considerare le organizzazioni come portatrici di forme molteplici di ricchezza:

Si introduce quindi il tema del rapporto dell’impresa con le risorse interne ed esterne e delle ripercussioni dei processi sulle persone e sulle loro condizioni di vita. Lo stesso profitto, in questa visione relazionale allargata, non si pone più come mero fine ma assume fino in fondo il suo valore di strumento al servizio dei soggetti della comunità organizzativa e territoriale poiché consente all’impresa di sviluppare la ricchezza, non più circoscritta solo alla dimensione economica ma ampliata in un’ottica multidimensionale: capitale economico, culturale, sociale, naturale, organizzativo, sia interno – rispetto al processo dell’organizzarsi – che esterno, rispetto al contesto e all’ambiente.

La dimensione identitaria, così forte a Deusto, è capitale sociale. La capacità di guida politica degli uffici rispetto alle varie istanze culturali, sportive e di impegno degli studenti è capitale organizzativo. La capacità di mettere in relazione diversi attori territoriali con le iniziative degli studenti e di creare reti di collaborazione è capitale culturale. Il trasferimento di questo capitale alle associazioni studentesche (o la capacità di questa di goderne in termini di spin off) sopravanza di gran lunga la possibilità di accedere a risorse specificamente monetarie. Al contrario nelle nostre università, per motivi storici diversi, è proprio la capacità dio godere di questo tipo di esternalità che manca, il che rende poco soddisfacente l’effetto dei trasferimenti di risorse economiche, che gli attori devono poi spendere in contesti spesso poco soddisfacenti e quindi con meno efficacia.

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