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Mostri con una loro etica

Non ho mai raccontato qui sul blog che durante il 2021 ho letto praticamente senza interruzioni quasi tutto il ciclo di Murderbot di Martha Wells: si tratta di quattro racconti lunghi, in italiano raccolti in un unico volume intitolato I diari della macchina assassina di cui vedete la copertina qui a fianco, e due romanzi, mi pare di capire non ancora tradotti (sotto metto le copertine delle edizioni in inglese di racconti e romanzi, in ordine di uscita).

Dal punto di vista editoriale il caso di Murderbot è abbastanza particolare. Il nome della Wells mi diceva qualcosa e sono andato a frugare fra i libri della Nord della mia libreria per scoprire che era suo Il potere del fuoco (The element of fire), un vecchio libro che era un incrocio fra I tre moschettieri e il classico fantasy coi maghi oscuri e gli elfi e che mi aveva molto intrigato. Il potere del fuoco aveva suscitato una certa attenzione generale (e una nomination ai premi Nebula) ma poi avevo perso le tracce di Wells che, vedo, ha avuto per vent’anni una carriera solida ma senza grandi acuti. Io ricordavo il suo nome principalmente perché Il potere del fuoco (che ho subito riletto, trovandolo ancora più che solido, anche se convenzionale) aveva una bella co-protagonista e una serie di idee interessanti sui fatati che, con altre fonti, avevo prontamente riciclato in una lunga campagna di Advanced Dungeos & Dragons (quella, lo dico per quelli che l’hanno giocata, sulla figlia del Kanto).

Ma divago: insomma, la Wells sembrava un’autrice non di primo piano, ma poi il ciclo di Murderbot l’ha invece consacrata autrice di primissimo piano: i quattro racconti sono usciti uno dopo l’altro con successo crescente e i due romanzi sono seguiti subito dopo; dal 2019 la serie ha vinto quattro Hugo, due Nebula e altri premi minori. Wells si è potuta perfino permettere di rinunciare quest’anno alla nomination al premio Nebula per lasciare spazio ad altri autori.

La serie racconta di un robot costruito con compiti di guardia giurata e bodyguard (se le guardie giurate fossero ordinariamente un misto di Rambo e Capitan America con una spruzzata di James Bond). Tutti i robot del suo tipo hanno un circuito di controllo che garantisce i proprietari la loro obbedienza assoluta, ma il nostro eroe è riuscito a hackerare il suo circuito ed è dotato ora di libera volontà e di un livello di autocoscienza superiore per quanto lievemente sbilanciato, dato che ha utilizzato la sua nuova libertà di manovra per scaricare giga e giga di telenovele e serie televisive del futuro grazie alle quali ha compiuto la sua educazione sentimentale e definito la sua comprensione del mondo; il nome che si è dato, appunto Murdebot, cioè «macchina assassina», è quindi autoironico e venato di malinconia; in un certo senso, niente piacerebbe più a Murderbot che gli umani a lui affidati fossero capaci di badare a se stessi ed evitassero di mettersi nei guai obbligandoli a salvarli e distogliendolo così dall’ultima puntata de Ti amerò fino alla fine della galassia o qualcosa di simile. Purtroppo questo non accade mai e Murderbot è continuamente messo di fronte al fatto che la sua identità è di fatto quella del mostro di Frankenstein, però dotato di una sua decenza morale e di un gusto critico infallibile in materia di fiction.

È chiaro che tutta questa premessa paradossale permette un continuo processo di straniamento, presentando classiche trame avventurose attraverso il punto di vista alieno di una macchina dal raziocinio perfetto ma contemporaneamente del tutto disadattata, sia perché criminale che perché, diciamo, un idiot savant, e la scrittura della Wells è a abilissima nel rendere contemporaneamente i dilemmi etici in cui si imbatte il povero Murderbot, la sua comprensione imperfetta di ciò che è umano e la sua ambivalenza rispetto alla possibilità di essere, anche lui, umano, qualunque cosa voglia dire.

C’è sempre un larvato effetto comico, nella scrittura, come in questo pezzo (la traduzione è mia, ma in inglese il mix di gergo da operatori di sicurezza e realtà prosaica rende molto meglio):

Sin dall’inizio del festival, avevo tenuto in considerazione un potenziale attaccante di cui Amena si trovava spesso in presenza. Le prove si stavano accumulando e la mia valutazione di pericolosità stava per raggiungere il livello critico. Cose come: 1) l’aveva informata che la sua età era comparabile a quella di lei, che era appena sotto l’età legale del consenso, ma la mia scansione biologica e l’analisi dei database pubblici indicavano che aveva approssimativamente dodici anni standard di quel sistema solare in più di lei; 2) non la avvicinava mai quando altri familiari o amici da me verificati erano con lei; 3) fissava insistentemente le sue caratteristiche sessuali secondarie quando la sua attenzione era altrove; 4) la incoraggiava a assumere sostanze inebrianti che lui invece non ingeriva; 5) gli umani con ruolo parentale e gli altri umani collegati presumevano che lei fosse con amici quando era con lui e gli amici supponevano che fosse con la famiglia e lei non aveva riferito di lui a nessuno dei due gruppi; 6) semplicemente quella merdina non mi piaceva,

ma la base comica serve, soprattutto, a fare da supporto a quei momenti di commozione e di patetismo dati dal contrasto fra umanità desiderata e negata.

Va notato, peraltro, che non si tratta di romanzi filosofici: la narrazione ha una solida base avventurosa e un processo di costruzione dell’universo narrativo più che rispettabile, con un gioco di contaminazione che per certi aspetti sembra il reciproco di quanto fatto da Jim Butcher per i Dresden files: lì si metteva il fantasy dentro il poliziesco, qui si mette il pulp dentro il cyberpunk; l’operazione funziona meglio a Wells che a Butcher per vari motivi, alcuni dei quali rimando a quando racconterò della mia rilettura recente dei primi romanzi dei Dresden files (volevo vedere se il confronto reggeva), ma soprattutto perché pulp e cyberpunk sono parenti e fantasy e gialli invece no e perché ci sono innesti che vanno fatti con un certo senso di marcia: Butcher va contromano e Wells, al contrario, nella direzione giusta.

Per molti aspetti, la fantascienza della Wells dipinge un universo che, per quanto preveda intelligenze artificiali e viaggi interstellari, è complessivamente un futuro prossimo: c’è la rete, uno strapotere delle corporazioni, un gioco di movimenti politici e di opinioni pubbliche ben riconoscibile – comprese le relazioni fra governi, corporazioni e ONG – ed per questa prossimità che mi viene da parlare di cyberpunk; d’altra parte non c’è né la ruvidità né l’angoscia esistenziale di quel genere e tutto appare appena appena edulcorato, compresa la critica sociale, che molte volte sembra andare perfino oltre le intenzioni dell’autrice e scaturire spontaneamente dalla riflessione del lettore sulla peculiare condizione di Murderbot (in compenso c’è un uso molto queer dei pronomi, che fa sì che certe volte, francamente, non si capisca di chi si stia parlando, e che è curioso in una narrazione di fantascienza: bastava inventarne di nuovi e giocare molto di più sui termini per definire generi e ruoli sociali).

Dentro questo universo, è interessante la capacità di Wells di creare personaggi dove normalmente non sembrerebbero essercene: per esempio nel primo ciclo di racconti il cattivo non è una persona ma un’entità collettiva, cioè una corporazione, con un effetto di minaccia interessante. E molti dei comprimari più riusciti non sono esseri umani, ma altri costrutti dotati di intelligenza artificiale affini a Murderbot, fra i quali, per esempio, una nave spaziale, la cui educazione sentimentale, che Murderbot, non sapendo fare altro affida alla visione del sua immenso database di telenovele, è uno dei pezzi più riusciti della serie. A confronto di questi, qualche volta gli umani sono meno definiti, o tendano a rientrare in tipologie ricorrenti, probabilmente anche qui oltre le reali intenzioni dell’autrice.

A me sembra che, complessivamente, i primi quattro racconti lunghi siano molto buoni e che il loro arco narrativo giunga a una conclusione unitaria più che soddisfacente. Mi sembra anche che siano migliori del romanzo, il quale rimane, comunque, più che rispettabile. Wells si è trovata di fronte a una doppia responsabilità: fare iniziare una nuova fase della vita di Murderbot, avendo chiuso l’arco narrativo precedente, e contemporaneamente misurarsi con una lunghezza del racconto più ampia e che chiedeva maggiore sviluppo di tutte le dimensioni complessive del racconto.

Non avendo letto il romanzo successivo (al momento l’ultimo della serie) non so se lo sviluppo narrativo trovi man mano più compiutezza, e se questo primo romanzo ottenga dalla lettura del successivo una sorta di soddisfazione o di giustificazione a posteriori. Certo, al momento i nuovi avversari, diretti o indiretti, non sembrano esattamente all’altezza della misteriosa malvagia corporazione precedente, e la condizione esistenziale di Murderbot, che alla conclusione dei racconti aveva trovato una sua nuova stabilità, meno interessante. Tuttavia le sue relazioni con gli umani e la ricerca di una propria forma di umanità si approfondisce, e la serie ha l’occasione di trovare una sua maggiore maturità di contenuti… o di affogare nel sentimentalismo.

Nel frattempo, d’altra parte, abbiamo una migliore definizione dell’universo narrativo, un meccanismo più che accettabile che permette di far tornare in scena vecchi alleati e di introdurre un potenziale nuovo mentore/committente, e una discreta trama avventurosa con diversi momenti emozionanti. Quello su cui magari obietterei è che Wells ha una certa abitudine a ricorrere, nei momenti di difficoltà, a meccanismi narrativi un po’ forzati o, quanto meno, introdotti senza la fluidità di cui sono capaci altri autori.

Il punto, però, non è tanto la capacità di Wells di gestire le trame, che effettivamente qualche volta zoppica. Non è neanche, al contrario, la capacità di humour della serie, che non fallisce mai, o la riflessione sociale o filosofica per mezzo della fantascienza, che è più che decente.

Il punto della serie, pensavo al momento di impostare questa recensione, è che consegna alla fantascienza uno dei suoi grandi personaggi e, probabilmente, il più importante degli ultimi vent’anni. Ok, lo dico da perfetto cialtrone perché la mia conoscenza della fantascienza contemporanea è più che limitata, ma qui sono abbastanza sicuro del mio: alla fine la serie è Murderbot e Murderbot è, per certi aspetti, perfino più grande della serie: un personaggio iconico capace di vivere nel ricordo con la sua personalità molto aldilà del ricordo delle singole avventure di cui è protagonista, e questa non è una caratteristica banale in un genere in cui, al contrario del fantasy, di solito la creazione dell’universo si mangia i personaggi e questi spesso per acquisire una loro identità e permanere nel ricordo hanno bisogno della trasposizione per immagini: gli eroi della fantascienza più noti: Spok, Picard, Darth Vader, Han, Luke e Leia, Deckard, Terminator, Ripley e così via vengono tutti dal cinema o dalla TV. Murderbot, invece, si mangia lui tutto il resto della narrazione pur rimanendo sulla pagina – temo, purtroppo, che sia molto difficile trasporre i racconti in una serie, ma questo è un altro discorso.

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