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Il delirio di Gerusalemme

Cronache di Gerusalemme, Guy Delisle, Rizzoli-Lizard 2012

Delisle cronache di Gerusalemme 2Non ho ancora avuto occasione di raccontare che dopo la lettura di Kobane calling mi è venuta voglia di riprendere in mano un po’ di comics journalism, cioè di giornalismo a fumetti, e così ho letto in una sola serata Cronache di Gerusalemme del canadese Guy Delisle, che è considerato il nuovo astro di questa forma di giornalismo (e di narrazione a fumetti). Il libro me l’aveva regalato almeno un anno fa il mio amico Alessandro Celoni, che colgo qui l’occasione di ringraziare: è passato parecchio tempo fra il regalo e la lettura, si vede che certi libri devono maturare sugli scaffali prima di essere colti.

Delisle racconta un anno di vita a Gerusalemme: arriva ad agosto 2008 per seguire la moglie, che è una impiegata amministrativa di Medici senza frontiere, e riparte più o meno dodici mesi dopo.

Cronache di Gerusalemme DelisleIl racconto è strutturato in maniera molto sofisticata: ogni capitolo un mese, ogni pagina più o meno un paio di giorni, un episodio della vita della famiglia, un problema domestico, una conoscenza fatta, un aspetto della vita lavorativa, l’Operazione Piombo Fuso… ecco: perché siamo in una situazione in cui questo fluire del tempo senza scossoni, questo scorrere della vita domestica può essere improvvisamente lacerato da eventi drammatici: un giorno ti si guasta la lavatrice, il giorno dopo  tua moglie è bloccata a Gaza e gli israeliani stanno bombardando. Così, in un attimo.

Questa tensione narrativa è continuamente annunciata e fatta intravedere dal contetuto della vita quotidiana: la famiglia di Delisle vive una vita molto normale in una situazione generale che è, al fondo, delirante. Vivere a Gerusalemme e, più in generale, in Israele, vuol dire vivere in una situazione di estremi, di conflitti e di quelle che, all’occhio pacato e un po’ spaesato del mite canadese, appaiono irrazionalità imperanti. Irrazionalità così imperanti, così pervasive che le persone le hanno completamente interiorizzate: non parlo soltanto della dimensione del conflitto, dell’incapacità, così evidente all’osservatore terzo, di uscire dalla rappresentazione macchiettistica dell’avversario, ma dell’essersi così adattati alla follia da fare con assoluta tranquillità cose che chiunque considererebbe impossibili: vale per i bizzarri accordi che legano le confessioni cristiane che si dividono i luoghi santi così come per mille altre cose. Vale un po’ meno, ma questa dimensione è un po’ meno accennata, per i palestinesi: per i quali, essendo la parte più debole, e oppressa, adattarsi alla follia rappresenta una strategia di sopravvivenza che non ha alternative. Colpisce, in filigrana nel racconto, l’estrema ipocrisia alla quale sono condotte le persone: tutti, cooperanti, ebrei e arabi israeliani e palestinesi, ebrei e musulmani e cristiani, vivono “facendo finta”, scendendo a compromessi, in mancanza di alternative praticabili, dichiarando qualcosa che è poi spesso molto diverso dall’agito. Non stupisce, allora, che il racconto pacato di questa vita quotidiana, già delirante di suo, possa aprirsi improvvisamente al dramma e alla tragedia, come dicevo prima.

In realtà non c’è sangue, in Cronache di Gerusalemme, e se la lettura qualche volta prende alla gola non è mai perché è successo qualcosa di truculento o di grave ai protagonisti: Delisle racconta con dolcezza, indugiando sui dettagli, fermandosi ai caratteri e alle persone e agli episodi, ai luoghi anche, con uno sguardo sempre un po’ spaesato e quasi mai giudicante.

Cronache di Gerusalemme Delisle 3Il che è, insieme, il punto di forza e il limite di questo racconto: è difficile stare in Israele per un anno, in mezzo alla gente, e non essere partigiani: Delisle ci riesce e certo non ci ammannisce un pezzo di propaganda stomachevole. Ma d’altra parte sembra, in diverse occasioni, ritrarre la penna, rifiutarsi di sottolineare il punto, volgere in sorriso la constatazione, palese, dell’ingiustizia. È un atto di fiducia nel lettore, al quale comunque il delirio è presentato con tutti i suoi attori, perché si renda conto di fino a che punto si è giunti? È il senso unico che può avere un’opera come questa, che deve limitarsi a presentare una testimonianza, nella quale non è in fondo difficile intravedere chi sono gli oppressi e gli oppressori? Oppure è in fondo un tradimento, questo rifiutarsi di “dire la parola”? Per Montale e la sua generazione, che uscivano dalla corruzione morale di un’intera nazione, dire

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo

rappresentava una scelta di rigore morale; a Delisle, un canadese garantito che plana su una situazione che non è la sua e la racconta con tenerezza, si potrebbe forse rimproverare il rifiuto a compromettersi, a sporcarsi le mani un minimo di più. E in fondo è anche per questo che l’ambiente dei cooperanti internazionali non esce in fondo particolarmente bene dal racconto: alla fine, per quanto possano lavorare con gli oppressi e gli emarginati, rimangono sempre sostanzialmente dei privilegiati dotati di una via di fuga assicurata che ai loro assistiti è per forza negata. D’altra parte, sarà necessario guardarsi da un certo moralismo: se i cooperanti (o gli israeliani democratici che ogni tanto compaiono) non andassero alle feste, non cenassero coi colleghi e non si rilassassero in famiglia, ma invece si vestissero di sacco, mangiassero pane e acqua e si percuotessero ogni notte col cilicio, la situazione dei palestinesi non cambierebbe di una virgola.

Non c’era niente di male nello scrivere poemetti agresti nemmeno tempi di Brecht, che infatti ne aveva scritto in gioventù e si lamentava

Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta silenzio!

«Quali tempi son questi», infatti. I tempi del delirio di Gerusalemme, appunto.

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