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Umanità in frantumi

Mi è capitato ieri di partecipare a una occasione di formazione in cui è stato distribuito un testo di Francuccio Gesualdi, che fu uno dei “ragazzi di Barbiana” di don Milani ed è adesso l’animatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo.

Il testo è tratto da un libretto molto agile e dal costo assolutamente contenuto, che è facilmente reperibile presso le Botteghe del Commercio Equo ed è oltretutto liberamente scaricabile dal web, per esempio qui. Si tratta de L’altra via, Edizioni Altreconomia, appunto di Franco Gesualdi.

Mi sembra quindi una lettura consigliabile a chi volesse approfondire temi accennati nel primo incontro dell’Osservatorio della Realtà. Posto qui sotto il brano che è stato oggetto di dibattito ieri, sperando di incuriosirvi.

Nella sua urgenza e severità, il brano rigetta le posizioni di coloro che, come pure è accaduto nelle obiezioni avanzate a Petra Perreca, sembrano sperare contro ogni evidenza che si possa costruire giustizia sociale senza porsi il problema della sostenibilità o, detto in altro modo, che sia pensabile che la prospettiva mondiale possa essere quella di garantire a libello globale uno stile di vita del tutto opulento come quello del mondo occidentale.

Esaurimento di risorse e accumulo di rifiuti sono chiari segnali di un sistema che sta divorando se stesso. Il tutto mentre metà della popolazione mondiale non ha ancora conosciuto il gusto della dignità umana. Crisi sociale e crisi ambientale strette in un abbraccio mortale.

Secondo la Banca mondiale sono tre miliardi e hanno le sembianze del bambino piangente che siede nudo fuori dalla capanna. Dell’uomo dal volto scavato e bruciato dal sole che, machete alla mano, cerca di strappare un pezzo di terra alla foresta. Della donna dal corpo macilento, appena ricoperto di stracci, che cerca del cibo frugando nella montagna di rifiuti. Sono i poveri assoluti che secondo il linguaggio arido del denaro vivono con meno di due dollari al giorno. Secondo il linguaggio concreto della vita non riescono a soddisfare nemmeno i bisogni fondamentali. Non mangiano più di una volta al giorno, si alimentano con una dieta costituita quasi esclusivamente da farinacei e legumi. Molti di loro bevono acqua di pozzo o di fiume, non godono di servizi igienici. Vivono in baracche costruite con materiale di recupero o in capanne costruite con materiale naturale trovato nei dintorni. Hanno scarsi indumenti e un bassissimo livello di scolarità. In caso di malattia non possono curarsi, sono costretti a indebitarsi per fare fronte a qualsiasi necessità che esce fuori dalla pura e semplice sopravvivenza.

I poveri assoluti popolano i villaggi sperduti delle campagne e si affollano nelle baraccopoli di città. Campano su lavori precari, malpagati, sono alla totale mercé di padroni, caporali e mercanti. Tramite i nostri consumi li incontriamo quotidianamente quando beviamo una tazza di caffè, quando mangiamo una banana, quando indossiamo un paio di scarpe sportive. Hanno il volto del contadino africano che è costretto a vendere il suo caffè a 20 centesimi di dollaro al chilo mentre noi lo ricompriamo a otto euro, del bambino ecuadoriano che per un dollaro e mezzo al giorno lavora dieci ore nel bananeto, della ragazzina cinese che per 30 centesimi di dollaro l’ora produce le scarpe firmate che noi ricompriamo a 120 euro. Il primo personaggio che incontriamo al mattino, prima di avere dato il buongiorno al nostro compagno o alla nostra compagna, ai nostri figli, è un contadino del Kenya o un bracciante del Brasile. E può essere un povero assoluto.

La coscienza di ogni persona civile si ribella ad un mondo dove il 20% più ricco gode dell’86% della ricchezza prodotta mentre il 40% più povero deve accontentarsi del 3%. Tocca a tutti lottare contro una globalizzazione che in nome del libero mercato dà il potere a multinazionali come Nestlé, Kraft, Sara Lee di fissare il prezzo di caffè e cacao a livelli da fame. Tocca a tutti fare pressione su Nike, Adidas e tutte le altre imprese che delocalizzano affinché paghino salari dignitosi. Ma la lotta per regole più eque e comportamenti più corretti, non basta più.

Non siamo più nel Novecento quando si poteva pensare di fare giustizia portando tutti gli abitanti del pianeta al nostro stesso tenore di vita. Oggi il pianeta non ce la farebbe a garantire a tutte le famiglie del mondo l’automobile, la lavatrice, il frigorifero, guardaroba stracolmi, una dieta a base di carne. È stato calcolato che se volessimo estendere a tutto il mondo il tenore di vita degli americani ci vorrebbero cinque pianeti: uno come campi, uno come oceani, uno come miniere, uno come foreste, uno come discarica di rifiuti(1). Noi non abbiamo quattro pianeti di scorta, con questo unico pianeta dobbiamo raggiungere due obiettivi fondamentali: dobbiamo lasciare ai nostri figli una Terra vivibile e dobbiamo consentire agli impoveriti di uscire rapidamente dalla loro povertà. Noi siamo sovrappeso, ci farebbe bene dimagrire, ma loro non hanno ancora raggiunto il peso forma, per vivere dignitosamente hanno bisogno di mangiare di più, vestirsi di più, curarsi di più, studiare di più, viaggiare di più. E lo potranno fare solo se noi, i grassoni, accettiamo di sottoporci a cura dimagrante perché c’è competizione per le risorse scarse, per gli spazi ambientali già compromessi. La morale della favola è che non si può più parlare di giustizia senza tenere conto della sostenibilità, l’unico modo per coniugare equità e sostenibilità è che i ricchi si convertano alla sobrietà, ad uno stile di vita personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito, più lento, più inserito nei cicli naturali. “Vivere semplicemente, affinché gli altri possano semplicemente vivere” proponeva Gandhi già negli anni Quaranta.

 (1) Elaborazione dati Wwf, Living Planet 2008

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