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Una filippica

Oggi come oggi probabilmente l’espressione mediazione culturale non dice molto, ma per i soci di Azione Cattolica della mia generazione e di quelle immediatamente precedenti si trattava di uno dei concetti cardine della formazione e del modo di guardare alla propria testimonianza.

Chiariamo subito che il termine non ha nulla (o molto poco) a che fare con l’attuale professione di “mediatore culturale”. Nel modo con cui il termine veniva usato dall’Azione Cattolica ci si riferiva essenzialmente a un metodo e a uno stile di evangelizzazione e di testimonianza cristiana nella società. Per i suoi teorici, Lazzati in primis, l’idea della mediazione  culturale nasceva dal pensare che dalla fede in Cristo e dal desiderio di vivere uno stile di vita evangelico non discendevano necessariamente in maniera diretta ed evidente delle soluzioni e delle ricette di tipo sociale e politico.

Era invece rimesso al discernimento dei laici, a una opera di traduzione, cioè appunto di mediazione, il comprendere come incarnare il Vangelo nelle concrete situazioni storiche e culturali; quali opzioni politiche concrete perseguire, dati anche i condizionamenti e le lentezze della storia degli uomini in mezzo a cui vivono i cristiani.

L’idea della mediazione culturale richiedeva e a sua volta era richiesta dalla scelta religiosa dell’AC. Perché della scelta religiosa la medazione culturale rappresentava il complemente operativo e lo sbocco di testimonianza, e d’altra parte perché la scelta religiosa, cioè l’opzione prima di tutto per Cristo come valore fondante della propria vita metteva la mediazione culturale al riparo da ogni forma di opportunismo o di svalutazione delle fede e invitava in ogni caso a “andare oltre” la storia nella dimensione del Regno di Dio.

Certo, in parte la mediazione culturale richiedeva e presupponeva il partito unico dei cattolici: anche nella mente di Lazzati probabilmente c’era l’idea di una Chiesa (e di una AC) maestra e formatrice e di un laicato, organizzato nella DC, nel sindacato e in tante altre organizzazioni, impegnato a tradurre quella formazione in concrete opzioni politiche e sociali; di fatto l’idea di mediazione culturale è andata in crisi anche a causa del tramonto del partito cattolico.

Ovviamente l’idea di mediazione culturale non si risolveva in una pura “divisione dei compiti” fra comunità ecclesiale nel suo complesso e laicato: c’era dietro una visione teologica, quello della incarnazione (altro termine caratteristico di Lazzati): il Verbo, facendosi carne, di questa assume tutte le lentezze e le pesantezze – ma anche le ricchezze -, fuorché naturalmente il peccato; così il messaggio evangelico portato dalla Chiesa si incarna nei concreti linguaggi, contingenze storiche e difficoltà degli uomini del tempo in cui è annunciato, senza per qesto annacquare la propria portata salvifica.

Di per sé la mia generazione è stata l’ultima a formarsi dentro gli schemi ideali della mediazione culturale, che non ha mai amato molto ma che anzi ci andava stretta. Avremmo preferito un profilo di testimonianza più diretto, maggiore chiarezza e unità ecclesiale su alcune scelte sociali, una formazione più estroversa e più rivolta verso l’evangelizzazione; molti di noi, per dire la verità, si sentivano a disagio dentro l’unità politica dei cattolici, anche se a chiederla era stato Giovanni Paolo II al Convegno Ecclesiale di Loreto.

Ma più mi guardo indietro e più mi rendo conto che l’idea di mediazione culturale era uno strumento potente di emancipazione del laicato cattolico: perché dava dignità ai laici rendendoli protagonisti di un pezzo decisivo dell’azione della Chiesa nel mondo, dando loro la responsabilità di elaborare soluzioni e percorsi (vedere-giudicare-agire) senza la supervisione diretta e magari asfissiante dei presbiteri. E contemporaneamente le generazioni cresciute dentro quello schema di lettura del ruolo della Chiesa nel mondo avevano una grandissima capacità di elaborazione e di lettura della realtà sociale in cui agivano, ed erano senz’altro capaci di dialogare con essa (dialogo è un’altro termine caratteristico dell’epoca). Quando parlo di dialogo non penso allo scimmiottamento di linguaggi o alla assunzione acritica di concetti ed esperienze, a partire da quelle televisive, così caratteristiche oggi per esempio di certa pastorale giovanile o sociale: più semplicemente penso alla capacità di “stare” nelle situazioni sociali, anche complesse, di capirle e interagire con esse.

Mi sono tornate in mente tutte queste cose a proposito delle polemiche anticlericali di questi giorni, dai costi della Giornata Mondiale della Gioventù alla tassazione dei “privilegi del Vaticano”. Chiarisco subito la mia opinione: credo che si tratti nella maggior parte dei casi di un anticlericalismo becero, pochissimo presentabile dal punto di vista intellettuale e nutrito di argomentazioni ampiamente strumentali.

Ma quello che mi interessa, qui, è ragionare maggiormente sul versante ecclesiale. Gli avvenimenti di questi giorni secondo me ci ricordano di quanto bisogno abbiamo di un laicato, come si diceva una volta, maturo.

In primo luogo l’assenza totale di un laicato autonomo, di “corpi intermedi” fra Chiesa e società (associazionismo, movimenti politici e sociali) dotati di propria dignità e indipendenza, fa sì che qualunque polemica debba per forza andare a infrangersi direttamente contro i rappresentanti ufficiali della Chiesa, i Vescovi, il Papa, il… Vaticano, minandone – anche quando avessero sempre ragione e trovassero sempre parole e argomenti adatti, cosa che non è – il ruolo magisteriale e la credibilità dell’annuncio. Non dovrebbe spettare al Papa e ai Vescovi, o ai loro portavoce, illustrare le particolarità del bilancio della GMG o di come sono stati reperiti i fondi per celebrarla o fare la cernita degli immobili esenti dall’ICI (né, probabilmente, contrattare sull’ICI col Governo): già  Pietro e i Dodici si erano resi conto che: «Non è conveniente per noi lasciare la Parola di Dio» (At. 6,2). Pietro e i Dodici risolsero quella volta il problema coi diaconi, anche oggi servirebbe una diaconìa della testimoniana e del dialogo.

Perché di capacità di dialogo si sente oggi un gran bisogno. La reazione della comunità ecclesiale nei confronti di questa ennesima ondata di attacchi e aggressioni è, soprattutto a livello di base, strettamente di tipo difensivo e, in qualche misura, propagandistico. L’idea che sembra prevalere è quella del muro contro muro e dell’opporre argomento contro argomento, polemica a polemica, pagina Facebook a pagina Facebook: solo che così non si va da nessuna parte, perché per la Chiesa il problema non è avere ragione, è salvare gli uomini, tutti gli uomini, anche gli indignados che spintonano i preti, anche gli agnostici militanti, anche i massoni, perfino… e questo non si può fare senza la capacità di dialogare, senza la capacità di ricordarsi che le gioie e le speranze e le tristezze e le angosce degli uomini sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli del Signore (lo dice il Concilio), senza la capacità di far “andare oltre” le discussioni, senza la chiarezza che non vi sono steccati invalicabili posti fra noi cristiani e gli (altri?!) uomini.

Per far questo c’è un gran bisogno di figure di laici credibili e preparati, capaci di stare in mezzo alla gente senza essere folla. C’è un gran bisogno che questi laici sappiano e possano costruire percorsi volti al bene comune: perché di fronte al sincero sforzo verso il bene comune nessuna polemica verso la Chiesa “regge”. Laici. Bene comune. Dialogo. Vuol dire che c’è un gran bisogno, ancora una volta, di quella che, ai miei tempi, si chiamava mediazione culturale.

Laici. Bene comune. Dialogo. Mediazione culturale. Direi che c’è ancora un gran bisogno dell’Azione Cattolica.

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