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Camminando si apre cammino

Per una strana  fortunata coincidenza, la Nuova Sardegna di ieri ha pubblicato in due pagine successive sia la notizia dell’inaugurazione del sentiero Frassati della Sardegna sia la notizia di Caminantes, un convegno di studi che da oggi fino a domenica, a Sedilo, mette a confronto sul tema del pellegrinaggio religioso in Sardegna e nel mondo studiosi di diversa provenienza e ispirazione.

Convegno e inaugurazione, teoria e pratica, dimostrano che il camminare lungo le strade del mondo rimane tutt’oggi, per tantissime persone, un modo privilegiato di inoltrarsi contemporaneamente lungo i sentieri dello spirito. L’Europa si è forgiata certo attorno alle città, come insegnava La Pira, ma anche e contemporaneamente lungo le strade che congiungevano quelle città, in un crogiolo di incontri, contaminazioni, conoscenze di cui troppo spesso ci dimentichiamo oggi che altri pellegrini, profughi, migranti lungo altre strade tentano di congiungere le loro città con le nostre.

L’esperienza del pellegrinaggio, così tipica anche del cristianesimo, ci insegna che il camminare è momento privilegiato per reincontrare se stessi e per per confrontarsi con l’altro, e, se questi due incontri sono autentici, diventa forzatamente anche modo per incontrare l’Altro. L’episodio dei discepoli di Emmaus ha, con grande chiarezza, tutti questi elementi: la strada, i viandanti, l’incontro con lo sconosciuto, la condivisione di pane, storie e interrogativi profondi, e, alla fine, la rivelazione di verità non capite e nemmeno supposte fino a quel momento.

Solo questo renderebbe il camminare un’esperienza degna di essere vissuta. Ma c’è poi, nel fare strada a piedi, un’altra dimensione fondamentale, che è quella di una conoscenza profonda, intima, coi luoghi. Come tutti abbiamo sperimentato durante l’adolescenza solo vagabondando si impara veramente a conoscere e a possedere la propria città. Un’esperienza in realtà non più alla portata di tutti visto che che oggi molti, chiusi nelle proprie automobili, transitano per i propri luoghi senza mai veramente conoscerli.

È per questo che in alcune esperienze laiche il camminare è diventato atto politico. C’è per esempio a Roma l’esperienza di Stalker, un gruppo di architetti che ha scelto come metodo di intervento sulla propria città proprio quello, prima di tutto, di percorrerla in lungo e in largo. Sembra poco, in realtà è un atto importante: l’ultima esperienza si chiama Primavera Romana e merita quanto meno di essere conosciuta, anche per chi non ne condividesse l’impostazione più squisitamente politica (e chi volesse confrontarsi con l’impostazione teorica potrebbe leggere il bel saggio di Francesco Careri, Walkscapes). Ho visto recentemente che un candidato al Consiglio comunale di Cagliari propopne, invece dei convegni e tavole rotonde più usuali, delle passeggiate cittadine in cui si incontrano persone e situazioni, si approfondiscono punti di forza e criticità della città. Non so la qualità reale dell’esperienza, ma chiaramente l’impostazione è la stessa.

Tutte queste dimensioni del camminare e del fare strada sono, o dovrebbero essere, ben note a chi fa parte dell’Azione Cattolica. C’è la dimensione base dello spostarsi dalla propria dimensione locale perché l’Associazione è sempre “più grande”: quando sei in parrocchia vai agli incontri diocesani, quando sei in diocesi ci sono i campi e i convegni nazional: in quanti luoghi talvolta sperduti mi è capitato di andare nella mia esperienza di AC, e quante persone che altrimenti non avrei mai incontrato.

Ci sono spesso i pellegrinaggi  e ci sono, in campi scuola o esercizi spirituali, le esperienze di deserto e di silenzio durante le quali si camminava in mezzo alla natura col Vangelo in mano, desiderando magari che anche a noi qualcuno ci si avvicinasse e ci spiegasse il senso delle Scritture.

C’è la dimensione, tipica dei responsabili diocesani, almeno in altri tempi, dei giri e controgiri di visite alle parrocchie, di incontri coi gruppi parrocchiali più lontani. Ho conosciuto responsabili diocesani più anziani di me la cui geografia della Sardegna era segnata principalmente da punti di riferimento squisitamente associativi: la cantoniera prima di Laconi dove ci si fermava a prendere il caffé andando e tornando dai campi scuola nella borgata di Santa Lucia, la pietra miliare di Monastir che negli anni ’50, tornando verso Cagliari dopo le uscite di “propaganda”, segnava il punto in cui iniziare a recitare il rosario, e così via. E a questa geografia più ampia è correlata la geografia minuta del responsabile parrocchiale o dell’animatore o educatore che vede le strade del suo quartiere nei termini dei suoi soci che le abitano, e magari dei percorsi fatti pr riaccompagnare l’uno o l’altro verso casa dopo la riunione.

Credo però che dobbiamo chiederci, a livello diocesano, se questa geografia non vada rinnovata, se non dobbiamo trovare nuovi spazi da percorrere e da abitare. Certo non è rimanendo al’ombra del campanile, o chiusi nelle sagrestie, che si può fare evangelizzazione. Il web, o altri mezzi di comunicazione e di incontro, oratori e forme associative rinnovate non sostituiscono il puro e semplice atto del camminare, del percorrere la città, farsi segnare da essa e contemporaneamente segnarne i luoghi con la propria presenza.

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