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Articoli depressivi

L’altro giorno il mio amico Andrea Assorgia ha letto un articolo sull’economia italiana che io avevo promosso su Facebook, scritto da un altro amico, Vittorio Pelligra, e mi ha detto: «L’ho letto e mi sono depresso».

Andrea ha una figlia piccola, che incidentalmente è anche mia figlioccia, quindi la sua depressione la capisco. È seguendo questo mood che gli traduco l’articolo sul declino italiano dell’editorialista del New York Times Frank Bruni.

Bruni_FrankParentesi più leggera: Bruni è uno strano personaggio. Fino al 2004 è stato corrispondente dall’Italia, poi è tornato negli USA per ricoprire il ruolo di critico di cucina del giornale, probabilmente perché gli americani ritengono che dopo che uno è stato in Italia ha acquisito il gusto per il buon cibo.

Recentemente è tornato in Italia. Quelle che seguono sono le sue impressioni. L’articolo originale è sul sito del New York Times. A me è sembrata soprattutto interessante la chiave di lettura sottotraccia del confronto fra USA e Italia: in qualche modo Bruni ragiona che noi siamo in fondo al baratro verso il quale l’America sta scivolando. Probabilmente vale per tutto il mondo occidentale.

Ecco, scommetto che adesso siete depressi anche voi.

L’Italia ti spezza il cuore

ROMA – La prima notte dopo il mio ritorno in Italia, a una cena a Milano, ho visto e ascoltato una coppia di successo quasi giunta ai cinquan’anni pianificare la fuga da un paese che amano ma nel quale non credono più. Sgomberati i piatti, aperto il portatile, hanno iniziato a visionare il mercato immobiliare a Londra, dove a uno di loro era stato offerto il trasferimento. I prezzi li hanno terrorizzati ma non scoraggiati. Hanno un figlio di dieci anni e temono che l’Italia, con il 40% di disoccupazione fra i giovani adulti e una economia la cui apatia è divenuta sembianza di normalità, non gli prospetti un futuro particolarmente brillante.

Tassi disoccupazione Europa

Due giorni dopo e più o meno trecento chilometri a sudest di Milano è stata una anziana italiana – circa settant’anni, scommetterei – che ha cantato il lamento per il suo paese. Stavo pranzando sulla cima di una montagna nella regione delle Marche e, con salsicce di cinghiale davanti a me e un castello più in alto avrei potuto convincermi di essere in paradiso. «Un museo», mi ha corretto. «Siete in un museo e un giardino biologico». Questo è ciò che l’Italia è diventata, mi ha detto. Ogni anno il paese perde un po’ di più del suo vigore, un po’ più della sua rilevanza.

Poiché sono stato così fortunato da vivere qui un tempo e sono sempre di ritorno, sono ben abituato al pessimismo teatrale degli italiani, al loro talento per la lamentela. È quasi uno sport, quasi l’opera lirica, eseguito con gestualità altisonanti e intonazioni musicali e, nel passato, con il sottinteso che non c’era nessun altro posto dove avrebbero voluto essere in alternativa.

Ma il ritornello questa volta è stato diverso. L’intero clima lo è stato. Chiedi agli studenti italiani cosa li aspetta dall’altra parte del loro titolo di studi e si stringono nelle spalle. Chiedi ai loro genitori come farà l’Italia a superare la curva e ottieni la stessa espressione di perplessità. Si sente parlare molto più di dieci o anche di cinque anni fa di emigrare in Inghilterra, negli Stati Uniti. Senti di meno fiducia nel domani.

La cosa mi ha molto sorpreso. Anche turbato, perché venivo diritto diritto dallo shtudown del nostro governo, e ho osservato lo scontento dell’Italia attraverso il filtro delel rpeoccupazioni americane, trattandolo come una favola educativa. L’Italia è ciò che succede quando un paese sa benissimo quali sono i suoi problemi ma non sa darsi la disciplina e la volontà di risolverli. È quel che succede quando le disfunzioni politiche macinano e macinano e macinano e il buon governo diviene un miraggio, un mito, uno scherzo. L’Italia traccheggia grazie alle sue fenomenali benedizioni piuttosto che costruire su esse, e perde trazione in una economia globale con competitori più motivati. Vi sembra familiare? C’è così tanta bellezza e potenzialità qui, e così tanto spreco. L’Italia ti spezza il cuore.

E non è tutta opera di Silvio Berlusconi. La sua recente condanna per frode fiscale, con la conseguente interdizione dai pubblici uffici per diversi anni, non ha prodotto il senso di liberazione e di nuovo inizio che ci si poteva aspettare. Ha invece costretto gli italiani a riconoscere che mentre lui sperperava il tempo, peggiorava le cose e forniva una distrazione buffonesca da cartone animato, i demoni profondi del paese – regolamentazioni eccessive e una burocrazia che reprimono l’imprenditorialità; un sistema chiuso di favoritismi che svia l’iniziativa; la corruzione e il cinismo che genera – trascendono la sua figura.

Nel secondo quadrimestre del 2013 il debito publbico italiano è salitoal 133% del prodotto interno lordo: il secondo più alto nella zona Euro, che segue solo la Grecia. Il declino del PIL di circa l’8% rispetto al picco pre-crisi è peggiore della Spagna o del Portogallo. Non c’è stato sinora alcun recupero significativo, anche se una piccola crescita può finalmente arrivare più avanti nell’anno.

Ma non c’è bisogno di numeri per misurare la deriva dell’Italia. Basta scendere dal treno ad alta velocità (che è fantastico) o uscire dall’autostrada e viaggiare per le strade minori, che si sgretolano nell’abbandono. O provare a buttare la tua tazzina vuota del gelato nell’apposito cestino di questa celebre capitale, Roma. Sono sempre pieni o traboccanti. Uno che ho trovato una notte, vicino alla Camera dei Deputati, non era stato svuotato per così tanto tempo che le persone semplicemente lasciavano la spazzatura alla base, dove stava sorgendo un mucchio di rifiuti: l’ottavo colle di Roma. In una città le cui difficoltà di bilancio e inefficienze rispecchiano quelle del paese, la gestione della spazzatura è divenuto un problema enorme, un sintomo dell’incerta salute del corpo politico.

Giovedì ho fatto visita al medico incaricato. Il suo nome è Ignazio Marino. A giugno è stato eletto nuovo sindfaco di Roma, avendo superato il candidato uscnete conservatore, sostenuto da Silvio Berlusconi, con un impressionante 64% dei voti, che suggeriva la voglia degli italiani di qualcosa di nuovo. Marino, 58 anni, è entrato in politica solo sette anni fa, e ha passato la sua vita professionale precedente come chirurgo specializzato in trapianti di fegato (anche se ha giocherellato in reni e pancreas) che viveva per la maggior parte del tempo in Pennsylvania.

Mi ha detto che governare Roma non è diverso da una delle seu operazioni.

«Un’emergenza controllata», ha chiarito.

Ha il più bell’ufficio del mondo, in un palazzo rinascimentale sul Campidoglio, una piazza sulla sommità di una collina progettata da Michelangelo. Una balconata vicino alla sua scrivania si protende come la prua affusolata di una nave sulle antiche colonne e archi del Foro romano. Là, ai tuoi piedi, è il posto in cui si dice che Marco Antonio abbia parlato dopo l’assassinio di Cesare. E là, a portata di mano, il Tempio di Saturno. È una visione affascinante, ma anche una provocazione, un ricordo di glorie passate, di una grandezza ormai andata.

Da un punto differente dell’ufficio di Marino abbiamo osservato da una finestra dove parcheggia la sua bicicletta, che prende tutti i giorni per andare al lavoro, in parte per incoraggiare nuove forme di mobilità in una città con troppo traffico e cattivi trasporti pubblici. Sembrava spaventosamente sola. I romani preferiscono i loro scooter.

Ma se migliorare la situazione del traffico e dei rifiuti è fra le sue priorità, in cima c’è un punto più indefinito, ed è condurre quel tipo di attività amministrativa trasparente e orientata ai risultati che contraddice il modo attuale con cui si fanno le cose in Italia, che lui, così come tanti altri italiani con cui ho parlato, mi ha descritto come basato su alleanze individuali, obbligazioni reciproche e anzianità di servizio invece che merito.

«Se cambiamo questo, il denaro e gli investimenti arriveranno», dice, aggiungendo che è tornato in Italia nel 2006 per la sua riuscita campagna elettorale per il Senato perché aveva realizzato che era ora di smettere di lamentare le patologie del paese e cominciare a curarle. Medico, cura la tua patria.

Gli ho chiesto la prognosi del paziente, intendendo Roma.

Una lunga, pensierosa pausa.

«È recuperabile», ha detto.

Gli ho chiesto dell’eredità di Berlusconi.

«Il danno è nella cultura che ha creato», ha detto Marino. «L’assunzione di responsabilità non era un valore». Berlusconi ha fatto sembrare la vita degli italiani come una festa di adolescenti, un danzare senza fine attorno alle regole, in cui ciò che realizzavi contava meno di ciò in cui potevi farla franca, con il bottino destinato al più sfuggevole.

E adesso, il dopo sbornia. La sveglia che suona.

Sul giornale La Stampa di due settimane fa l’editorialista Luca Ricolfi si è scusato per non essere comparso per un po’, ma ha spiegato che non c’era niente di nuovo da dire. Per vent’anni l’Italia non si è mossa. «Ogni cosa è inerte e congelata», ha scritto.

Sul Corriere della Sera di una settimana dopo, l’editorialista Ernesto Galli della Loggia ha lamentato gli «anni e anni di paralisi» del paese, durante i quali una sorta di gerontocrazia ha impedito qualunque reale meritocrazia. Ha posto attenzione a notare che mentre l’Italia sta «lentamente dissolvendosi» non sta propriamente «pimobando nell’abisso».

Un numero sufficientemente grande di italiani rimane appena abbastanza confortevole da aggrapparsi allo status quo, afferrandosi a ciò che hanno attualmente. Ma ciò acutizza solo l’incertezza su ciò che avranno più avanti. Il futuro, dopotutto, è costruito su flessibilità e sacrifici, sul fare onde invece che guadare l’acqua bassa. Eppure guadano. In questo sono in buona compagnia nell’Europa Occidentale e negli Stati Uniti.

«È incredibile», mi ha detto Paolo Crepet, uno psichiatra italiano e conferenziere che ho incontrato in questo viaggio. «Noi siamo un popolo creativo. Siamo conosciuti nel mondo per la nostra creatività». Ma ciò che individua nei suoi pazienti e nel suo pubblico non è dinamismo; è impotenza. «Si aspetta qualcuno che ci tiri fuori», ha detto. «Si aspetta Godot». Ascoltandolo ho sentito il mio stomaco contrarsi. Il fatalsimo è ciò che arriva dopo troppi anni di pessimismo? È lì che l’America è diretta?

Per la mancanza di direzione dell’Italia mi sono imbattuto in una metafora perfino troppo facile e adatta: segnali stradali che non potevano più essere letti, perché piante e rami non curati e fuori controllo li coprivano. Stavo scivolando fra meraviglie, inoltrandomi nello splendore. Ma non avevo la minima idea se stavo davvero andando da qualche parte.

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2 pensieri riguardo “Articoli depressivi

  • Me lo dico da solo prima che qualcuno lo scriva: ovviamente Galli della Loggia e chiunque altro abbia avuto responsabilità in questi vent’anni, sia andato in TV, abbia fatto l’intellettuale più o meno organico e abbia partecipato consapevolmente all’ambaradan non ha il diritto di parlare: il fallimento è collettivo della classe dirigente, e farebbe meglio a starsi zitto.

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  • Alberto Pintus

    mì quello che ho pensato anche io … non vale però! 🙂

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