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Sei lezioni sulla storia

 Una lettura fondamentale

Carr lezioni storiaHo letto nei giorni scorsi Sei lezioni sulla storia, dello storico inglese E.H. Carr (Piccola Biblioteca Einaudi, la mia edizione è del 1967 ma vedo che ce n’è una del 2000 arricchita di nuovi appunti di Carr stesso per una edizione successiva rimasta incompiuta).

Per la verità si è trattato di una rilettura, perché il libro era un adempimento obbligatorio preliminare per l’esame di Storia Moderna al primo anno di università, quando avevo diciannove anni, ed è stata per me una lettura fondativa ed una delle più importanti della mia vita: ci avevo trovato l’idea che di una montagna puoi avere mille punti di vista diversi ma che questo non vuol dire che la montagna non esista e che perciò l’oggettività storica si forma nel contrasto delle interpretazioni e a seconda del punto da cui scegli di guardare la montagna, e anche l’idea che se scoppia una guerra perché il re Michele di Grecia è stato morso da una scimmietta vuol dire che la guerra non è scoppiata per caso, ma perché c’era una linea di cause tali da rendere la situazione così fragile da far scoppiare una guerra per un banale evento fortuito, e che il compito dello storico è indagare quelle cause, e non l’evento scatenante. Al primo anno c’era anche Economia Politica e io fui catturato per sempre, ma quella lettura, con la gentile sollecitazione di un maestro come Girolamo Sotgiu, me le sono portate dietro in un sacco di altri ambiti della mia vita, a partire dalle cose che ho fatto nell’Azione Cattolica, nell’animazione dei gruppi e nel modo con cui ho guardato alla politica e alle cose.

Sebbene fosse stato un libro così importante non l’avevo mai riaperto; adesso però, che mi sto reiscrivendo all’università e per di più per studiare storia, mi è venuta voglia di riprenderlo in mano, ed è stata una bella esperienza.

Sei lezioni sulla storia in sintesi

Come dice il titolo il libro riporta il testo delle lezioni tenute da Carr all’università di Cambridge nell’evento annuale in onore di Trevelyan, quando a un professore di un’altra cattedra viene chiesto di trattare un argomento, diverso ogni anno, per una settimana. Carr, uno storico di impostazione marxista esperto di Unione Sovietica, sceglie di trattare questioni di metodo: le lezioni sono dedicate, successivamente, ai “fatti” storici e all’obiettività dello storico, al rapporto fra lo storico e l’età in cui vive (questo è il capitolo centrale, direi), alla scientificità della storia e al posto che hanno in essa i giudizi di valore e quelli morali, al concetto di causalità nella storia, al concetto di progresso e infine a esplorare alcune linee di sviluppo possibili della storia contemporanea (le lezioni sono del 1961, quindi a cinquant’anni di distanza si può già verificare la correttezza delle previsioni di Carr).

Ricordavo un tono spiritoso dell’esposizione e una bella facilità di divulgazione: era un’impressione che adesso ho riconfermato, ma questa volta mi ha colpito la vastità della cultura di Carr e la varietà e profondità di riferimenti e citazioni. Dovrebbe leggere questo libro il mio amico Giuseppe Puddu, che apprezza nella saggistica la ricchezza e precisione del lessico e la capacità di aprire orizzonti, per non parlare dell’alternarsi dei toni, che qui variano dal sarcasmo al ricordo personale alla meditazione pensosa alla esposizione sistematica di categorie del pensiero.

La tesi principale del libro può essere riassunta in una visione della storiografia come l’esercizio dello storico di comprendere il passato a partire dal suo presente: in questo senso l’oggi – che è diverso per ogni storico – ispira le domande da rivolgere al passato e il passato si apre allo sguardo dello storico proponendo lezioni che illuminano il presente. Nel quarto capitolo (mi pare) la capacità dello storico di dominare operativamente il presente e fare previsioni fa entrare nel discorso anche il futuro, ma i termini della questione non variano particolarmente. Dentro questo scenario dinamico – non particolarmente diverso dalla visione della storia di Marc Bloch, che però non viene mai citato – sono collocate le idee che ricordavo meglio: sull’obiettività storica, sui giudizi di valore, sulla causalità, che si rifanno a una teoria cognitiva conseguente che grosso modo può essere riassunta così: la storia è scienza, una scienza in cui osservatore e oggetto si influenzano a vicenda; ma questo è valido per tutte le scienze, e tutte consistono nella scelta consapevole di quali siano gli elementi da considerare rilevanti e quali no: viene riportato il giudizio del fisico Ziman, che dice che una verità scientifica è: «una affermazione accettata pubblicamente dai competenti in materia» e nulla più. E una visione della scienza non diversa da quella di Kuhn e dei suoi paradigmi (sono andato a riguardarmi le date, Kuhn pubblica un anno dopo, nel 1962, ma il dibattito culturale è evidentemente quello).

Polemiche e attualità

A diciannove anni non avevo i mezzi culturali per rendermi conto esattamente del dialogo che nel svolgere la sua tesi Carr intesse con i grandi storici della tradizione inglese, Acton, Gibbon, Namier, Trevelyan stesso, e del modo con cui entra nella dialettica culturale del suo tempo: se ancora oggi non so assolutamente chi siano gli storici dell’epoca che vengono fatti ripetutamente a pezzettini come il professor Butterfield o sir Isaiah Berlin, adesso capisco un po’ di più della polemica contro Popper e il positivismo (o neoempirismo) e la citazione in un senso o nell’altro di un buon numero di altri pensatori  – il lettore italiano nota per esempio un recupero di Croce come filosofo della storia e pensatore politico, posizioni temo messe in ombra in Italia dalle concezioni estetiche di Croce e dal rapporto col cattolicesimo.

La visione della scienza di Carr è una delle cose che rende il libro attuale anche oggi: perché è una voce vigorosa contro tutte quelle visioni di stampo beceramente scientista che volta a volta il CICAP o l’Odifreddi di turno tentano di resuscitare. È uno dei motivi per i quali il libro si consiglia ancora oggi anche a chi non abbia interessi puramente storiografici; allo stesso modo, riflettendo sull’oggi e la Sardegna, la visione di storia esposta ruba il terreno sotto i piedi a ogni idea di narrazione finalizzata alla costruzione di identità politiche o statali e ne mostra l’inconsistenza a patto che gli storici facciano il loro mestiere, e ci ricorda che senza una prospettiva storica le scienze sociali zoppicano: quando ho poggiato il libro ho pensato che in Sardegna avremmo bisogno di più storici e meno sociologi (mi perdonerà Marco Zurru) e semiologi… dei geologi, poi, dovremmo fare direttamente a meno.

Naturalmente il testo ha delle parti che appaiono più datate: non tanto i riferimenti marxiani o l’importanza attribuita all’Unione Sovietica (per quanto a un certo punto un ragionamento sull’economia non di mercato faccia sobbalzare) quanto tutto il ragionamento sul progresso come senso riconoscibile della storia; caratteristico dell’epoca e del pensiero di Carr, ma un po’ arzigogolato è poi tutto il discorso sul predominio della ragione. Si tratta però sempre di affermazioni ben circostanziate e inserite dentro ragionamenti intelligenti e solidi e, anche quando il lettore si trova in disaccordo, rimangono concetti provocatori e interessanti.

Nel capitolo finale Carr si lancia nel rischioso tentativo di ragionare sulle linee di tendenza future. Ne indica due, che non racconto per lasciare che ognuno si formi la sua opinione: ma a me è sembrato che a cinquant’anni di distanza la visione del vecchio storico mantenga tutto il suo vigore – anche laddove non possiamo dire che si sia avverata.

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