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Rispolverare Bennato

È capitato qualche giorno fa, in una riunione, che io abbai usato un’espressione del genere: «Guerre fratricide fra buoni e più buoni». Penso che un altro giorno vi racconterò il contesto, che magari è anche interessante, ma qui interessa dire che poco dopo qualcuno mi ha corretto: «Considerati i comportamenti di certi, io qui non vedo buoni e più buoni, ma casomai fra buoni e cattivi».

Devo dire di non averla presa benissimo, come si sarà visto dalle cose che ho detto dopo, ma sul punto specifico non avevo molto tempo per replicare e quindi me la sono cavata con una battuta, devo dire del tutto spontanea: «Io sono di una generazione per al quale quando ero ragazzo ascoltavo Bennato: parlando di buoni o più buoni avevo intesta una sua canzone che si intitola Arrivano i buoni, e a quella vi rimando».

Credevo fosse finita lì ma poi l’altra mattina, durante l’abituale pausetta Zoom dei Fabbricastorie si chiacchierava delle polemiche sulla Mercedes di Malika Chalhy, e io d’istinto ho citato Cantautore di Bennato:

tu non sei un comune mortale
a te non è concesso barare

[…]

tu non puoi sbagliare
tu non devi lasciarti andare
tu sei un cantautore

e ho pensato: «Uh-ho».

Come ho raccontato tempo fa, da ragazzo non è che semplicemente ascoltavo Bennato; per me e per tanti altri la sintonia era pressoché totale: Bennato parlava e pensava esattamente come noi, solo meglio, con più chiarezza, con più coraggio, con più sberleffi, con più capacità di spostare in avanti il confine oltre le convenzioni.

Ho anche raccontato che col tempo quella sintonia si è incrinata: l’ideologia è sembrata imbolsirsi, l’iconosclastia farsi di maniera, la volontà di andare controcorrente fine a se stessa. Della grande diade della mia giovinezza è rimasto Guccini da solo.

Devo dire che passato il momento in cui l’amore si è incrinato non lo seguo più attentamente: magari l’ultimo disco è fantastico, ma a me è sfuggito (devo dire che da Bollani mi è sembrato in formissima, peraltro). Ma quello che non avevo considerato è che molte canzoni fossero ancora vivissime: non dico quelle intime, personali, come Un giorno credi, o quelle che ormai sono classici fuori da qualunque contesto, come Il gatto e la volpe, ma quelle che apparentemente sembrerebbero datate, legate alla cronaca del momento dell’uscita o al contesto culturale dell’epoca, come appunto Cantautore.

Eppure, anche aldilà dei due episodi che ho raccontato, sempre più spesso mi capita di pensare che il Bennato degli anni ’70 e primi ’80 sia adattissimo all’attualità, e mi sto chiedendo il perché.

Mi sono detto che dipende dal fatto che viviamo in anni di nuovo di grandissima ortodossia ideologica e annegati nel moralismo: e in questi casi è d’uopo ricomporre la diade: serve riflettere, scavare, essere intimi e personali, come Guccini, ma serve anche quel tipo di capovolgimento della morale corrente, magari sentenzioso a sua volta ma graffiante, o quella rivendicazione degli spazi di libertà personale rispetto al benpensantismo di qualunque genere, compreso quello degli impresari di partito, quel sano scetticismo nei confronti dei custodi dell’ideologia, che è sempre stato il marchio di fabbrica di Bennato.

Fra l’altro il materiale non manca: Edoardo ha sempre avuto il vizio di ripetere le cose un paio di volte (uno dei motivi per cui la lucidità spietata dei vent’anni mi ha allontanato da lui), quindi spesso non c’è che l’imbarazzo della scelta; per esempio mentre scrivo questo articolo sto ascoltando una sua compilation e sta passando Sei come un juke-box, della quale mi ero del tutto dimenticato e che in fondo è una riproposizione di Cantautore: e anche questa, infatti, è adattissima a tutti quelli che, come diceva Debord, facendosi idolo della società dello spettacolo diventano merce e poi non possono più esimersi dal muoversi, muoversi, muoversi, a comando del pubblico.

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