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Catechesi politica

Il fidato aggregatore di notizie mi ha suggerito, l’altro giorno, la commemorazione pronunciata da Obama per John Lewis, membro della Camera dei Rappresentanti e uno degli ultimi grandi vecchi delle lotte per i diritti civili degli anni ’60. Al solenne servizio funebre Trump non è andato, evitando l’imbarazzo generale, ma c’erano altri due presidenti, Bush figlio e Clinton e un gran numero di altre personalità e tutti hanno preso la parola, offrendo il meglio di quanto l’oratoria statunitense offra in questo momento; tuttavia l’intervento di Obama è quello che ha dato il segno immediatamente e che ha avuto maggior risalto sia sui media tradizionali che sui social; si tratta certamente di un discorso che si inserisce fra i più importanti di Obama che pure è, notoriamente, un grande oratore.

Devo dire che personalmente quello che mi ha colpito del discorso di Obama, inizialmente, non è stato tanto il riferimento all’attualità politica quanto l’appropriatezza delle citazioni bibliche, un sottofondo leggero ma evidente, appropriato alla commemorazione del leader di un movimento che si è ampiamente intrecciato con la vita delle comunità religiose del Sud degli Stati Uniti e non solo – la commemorazione si teneva nella chiesa che fu di Martin Luther King – ma comunque notevole e certamente non scontato. L’adesione alla Parola, la sua corrispondenza evidenziata rispetto agli eventi, storici o di attualità, era senz’altro migliore di quella di molte omelie e catechesi che mi è capitato di sentire, tanto che mi sono chiesto quale sia l’esperienza religiosa di Obama.

Una ricerchina su Google mi ha dato la risposta, che è quella di una pratica – in varie comunità riformate – continua e significativa, del ruolo fondativo del pastore Jeremiah Wright nella formazione di Obama e della sua rottura, poi, con lo stesso pastore, rottura che lo ha portato a pronunciare un altro discorso piuttosto noto nel quale tornano in parte concetti esposti in questa commemorazione funebre. Devo dire che quel vecchio discorso di Obama meriterebbe di essere tradotto (o comunque riletto) nel momento nel quale le tensioni razziali sono di nuovo così evidenti nella società americana, così come varrebbe la pena d tradurre (o comunque leggere) l’ultimo saluto che Lewis ha preparato in anticipo perché fosse pubblicato sul New York Times il giorno della sua morte (è pubblicato, purtroppo, dietro un paywall, ma lo trovate qui sotto letto da Morgan Freeman), con una robusta conferma del suo credo nella nonviolenza.

Non potendo tradurre tutto, mi limito a tradurre l’elogio funebre di Obama da cui siamo partiti. Non lo traduco per i politici fra voi, ma per gli amici che predicano o catechizzano, come esempio. In coda trovate il video dell’intervento, che permette di apprezzare la capacità di Obama.

Le citazioni bibliche sono prese dalla versione interconfessionale della Bibbia in lingua italiana corrente in quanto riferimento comune per cattolici e riformati, anche se Obama usa certamente versioni in inglese lievemente (abbastanza) differenti; l’indicazione dei versetti è mia e non c’era nell’originale. Obama cita anche un gran numero di episodi e personaggi delle lotte per i diritti civili che possono essere poco noti in Italia, ma mettere la nota per ogni caso appesantiva il testo e quindi ho preferito evitare, sostituendo con dei link (dove possibile, in italiano) che non erano, ovviamente, nel testo originale.

In morte di John Lewis

di Barack Obama

Giacomo scrisse ai credenti: «Fratelli miei, quando dovete sopportare prove di ogni genere, rallegratevi. Sapete infatti che se la vostra fede supera queste prove, voi diventerete forti. Anzi, tendete a una fermezza sempre maggiore, così che voi siate perfetti e completi, sotto ogni aspetto» (Gc 1,2-4). È un grande onore tornare nella Ebenezer Baptist Church sul pulpito del suo più grande pastore, il dottor Martin Luther King, per rendere omaggio a quello che è stato forse il suo migliore discepolo. Un americano la cui fede ha sopportato più e più volte delle prove, per produrre un uomo di una fermezza incrollabile e capace di rallegrarsi pienamente: John Robert Lewis.

Per coloro che hanno già parlato, i presidenti Bush e Clinton, la signora Portavoce della Camera dei Rappresentanti, il reverendo Warnock, la reverenda King, la famiglia di John, gli amici, il suo amato staff, la sindaca Bottoms, io vengo qui oggi perché, come tanti americani, ho un grande debito verso John Lewis e la sua coinvolgente visione di libertà.

Come sapete, questo paese è un cantiere continuo. Siamo nati con delle istruzioni: formare un’unione più perfetta. Esplicitata in quelle parole è l’idea che siamo imperfetti. Che ciò che dà uno scopo a ciascuna nuova generazione è quello di riprendere in mano il lavoro lasciato incompiuto dalla precedente e portarlo al di là di quanto chiunque avrebbe potuto pensare possibile. John Lewis, primo dei Freedom Riders; capo del Comitato di Coordinamento Nonviolento Studentesco; più giovane oratore alla Marcia su Washingtonleader della Marcia da Selma a Montgomery; membro del Congresso, che ha rappresenta la gente di questo Stato e di questo Distretto per trentatre anni; mentore per tanti giovani – compreso me a suo tempo – fino al suo ultimo giorno su questa Terra, egli non ha solo accettato quella responsabilità, ma ne ha fatto l’opera della sua vita. Non c’è malaccio per un ragazzetto di Troy, Alabama.

John era nato da una famiglia di mezzi modesti: ciò significa che era povero. Nel cuore del Sud di Jim Crow da genitori che raccoglievano il cotone di qualcun altro. Apparentemente il lavoro nella fattoria non gli piaceva. In quei giorni in cui avrebbe dovuto aiutare i suoi fratelli e sorelle nei loro compiti, si nascondeva sotto il portico e prendeva la fuga verso il pulmino della scuola quando si presentava alla fermata. Sua madre, Willie May Lewis, ebbe cura di nutrire quella curiosità in questo bambino timido e serio. «Una volta che impari qualcosa», disse a suo figlio, «una volta che ti sei messo qualcosa nella tua testa, nessuno può portartelo via». Da ragazzo, John ascoltava da dietro la porta, dopo l’ora di andare a dormire, gli amici di suo padre che si lamentavano del Klan. Una domenica, quand’era adolescente, sentì il dottor King predicare alla radio. Da studente universitario nel Tennessee, si iscrisse ai laboratori di Jim Lawson sulla tattica della disobbedienza civile nonviolenta. John Lewis si stava mettendo qualcosa in testa. Un’idea che non poteva scuotere. Prese possesso di lui. Quelle resistenza nonviolenta e disobbedienza civile erano i mezzi per cambiare le leggi ma anche per cambiare i cuori e cambiare le menti e cambiare le nazioni e cambiare il mondo.

Così aiutò a organizzare la campagna di Nashville nel 1960. Lui e altri giovani uomini e donne sedevano a un banco del pranzo riservato ai bianchi, ben vestiti, con la schiena dritta, rifiutando di lasciare che un frappè versato sul loro capo o una sigaretta spenta sulla loro schiena o un piede diretto alle loro costole- rifiutando di lasciare che questo intaccasse la loro dignità e la loro determinazione. E dopo qualche mese, la campagna di Nashville raggiunse il successo della prima desegregazione di spazi pubblici in una grande città del Sud. John assaggiò il carcere per la prima, seconda, terza – beh, diverse volte. Ma assaggiò anche la vittoria, e questo lo riempì del senso di uno scopo sacrosanto ed egli portò la battaglia più nel cuore del Sud.

Quello stesso anno, appena poche settimane dopo che la Corte Suprema aveva dichiarato incostituzionale la segregazione dei terminal sulle linee di autobus interstatali, John e Bernard Lafayette comprarono due biglietti, salirono su un Greyhound, si sedettero in prima fila e si rifiutarono di spostarsi. Questo avveniva mesi prima dei primi Freedom Rides ufficiali. Stava facendo una prova. Il viaggio non aveva nulla di organizzato o approvato. Pochi sapevano cosa stavano combinando. E a ogni fermata nella notte, a quanto pare, l’autista furibondo usciva dall’autobus sbattendo la porta in direzione della stazione degli autobus. E John e Bernard non avevano idea con cosa potesse tornare. O con chi potesse tornare. Nessuno era lì per proteggerli. Non c’erano troupe televisive per registrare l’accaduto. Noi – tu lo sai, Rev, noi qualche volta – leggiamo di queste cose e lo diamo per scontato. O perlomeno noi, noi agiamo come se fosse inevitabile.

Immaginate il coraggio di due persone dell’età di Malia – più giovani della mia figlia maggiore. Da soli. A sfidare un’intera infrastruttura di oppressione. John aveva solo vent’anni. Ma ha gettato tutti quei vent’anni al centro del tavolo, puntando tutto, tutto quello, che il suo esempio potesse sfidare secoli di convenzioni e generazioni di violenza brutale e innumerevoli quotidiani oltraggi subiti dagli afroamericani. Come Giovanni Battista che prepara la strada, come quei profeti dell’Antico Testamento che dicono la verità ai re.

John Lewis non esitò, e continuò a salire a bordo degli autobus e a sedersi ai tavoli da pranzo riservati, finendo per essere fotosegnalato più e più volte. Marciò ancora più e più volte nella sua missione di cambiare l’America. Parlò davanti a un quarto di milione di persone alla Marcia su Washington a soli 23 anni. Contribuì a organizzare l’Estate della Libertà in Mississippi a soli 24 anni. Alla bella età di 25 anni a John fu chiesto di guidare la Marcia da Selma a Montgomery. Fu avvertito che il Governatore Wallace aveva ordinato ai militari di usare la violenza. Ma lui e Hosea Williams e altri li condussero oltre il ponte lo sgtesso. E abbiamo visto tutti il ​​film, le riprese e le fotografie. Il presidente Clinton ha citato il trench, la bisaccia, il libro da leggere, la mela da mangiare, lo spazzolino da denti. Apparentemente, le carceri non erano note per simili comodità personali. E se si guarda a quelle foto John sembra così giovane, ed è piccolo di statura. Assomiglia in tutto e per tutto a quel bambino timido e serio che sua madre aveva cresciuto, eppure, è pieno di uno scopo. Dio aveva messo in lui la perseveranza.

E sappiamo cosa è successo ai manifestanti quel giorno. Le loro ossa erano spezzate dai manganelli. I loro occhi e polmoni soffocati dai lacrimogeni. Si inginocchiarono per pregare, il che rese le loro teste bersagli più facili. E John fu colpito sul cranio. E pensò che sarebbe morto, circondato dalla vista di giovani americani che vomitavano, sanguinavano ed erano calpestati. Vittime nel loro paese di violenza sanzionata dallo stato.

E il fatto è, mi immagino che quel giorno gli agenti abbiano pensato di aver vinto la battaglia. Si può immaginare le conversazioni che hanno avuto al termine. Li si può immaginare che dicono: «Ecco, gliel’abbiamo fatta vedere». Hanno pensato di aver ricacciato i manifestanti oltre il ponte. Che avevano assicurato, avevano preservato un sistema che negava l’umanità fondamentale dei loro concittadini. Eccetto che questa volta là c’erano delle telecamere. Questa volta il mondo vide quello che era successo, rese testimonianza ai neri americani, che non chiedevano altro che essere trattati come altri americani, che non chiedevano un trattamento speciale, solo lo stesso trattamento, promesso loro un secolo prima e quasi un altro secolo ancora prima. E quando John si svegliò e si fece dimettere dall’ospedale, si assicurò di fare in modo che il mondo vedesse un movimento, nelle parole delle Scritture, «oppresso, ma non schiacciato; sconvolto ma non disperato, […] perseguitato, ma non abbandonato; colpito, ma non distrutto» (2Cor, 4,8-9). Tornarono alla Brown Chapel, un profeta maltrattato, con la testa bendata, e disse: «Ora verranno più manifestanti». E la gente venne. E le truppe si aprirono nel mezzo. E i manifestanti raggiunsero Montgomery. E le loro parole raggiunsero la Casa Bianca. E Lyndon Johnson, figlio del Sud, disse: “Dovremo vincere”. E la legge sui diritti di voto è stata firmata in legge. E Lyndon Johnson, figlio del Sud, disse: «Vinceremo» [we shall overcome, come Joan Baez, NdRufus]. E la legge sui diritti di voto è stata firmata in legge. E Lyndon Johnson, figlio del Sud, disse: “Dovremo vincere”. E il Voting Rights Act divenne legge.

La vita di John Lewis è stata, in così tanti modi, eccezionale. Ha dimostrato la giustezza della fiducia nei nostri valori fondanti. Ha riscattato quella fede. Quell’idea così tipicamente americana, l’idea che chiunque di noi, gente comune senza rango o ricchezza o titolo o fama, può in qualche modo evidenziare le imperfezioni di questa nazione e unirsi con altri e sfidare lo status quo. E decidiamo che è in nostro potere rifare questo paese, che amiamo, fino a quando non assomiglia più strettamente ai nostri ideali più elevati. Che idea radicale. Che idea rivoluzionaria. Questa idea che chiunque di noi gente comune, un ragazzetto di Troia, possa opporsi a principati e potestà e dire: «No, questo non è esatto; questo non è vero; questo non è giusto. Possiamo fare di meglio». Sul campo di battaglia della giustizia, americani come John, americani come Lowery e C.T. Vivian, altri due patrioti che abbiamo perso quest’anno, hanno liberato tutti noi. Cosa che molti americani sono giunti a dare per scontata. L’America è stata costruita da persone come loro. L’America è stata costruita dai John Lewis. Lui, almeno tanto come chiunque altro nella nostra storia, ha portato questo Paese un po’ più vicino ai nostri più alti ideali. E un giorno quando porteremo a termine quel lungo viaggio verso la libertà, quando formeremo un’unione più perfetta, che sia tra anni da ora o decenni, o anche se ci vorranno altri due secoli, John Lewis sarà uno dei padri fondatori di quell’America più piena, più bella, e migliore.

E tuttavia, per quanto eccezionale fosse John, c’è una cosa: John non ha mai creduto che ciò che faceva fosse più di quanto qualsiasi cittadino di questo paese possa fare. Nella dichiarazione che ho rilasciato il giorno in cui John è morto, il fatto che ho citato a proposito di John è quanto fosse gentile e umile. E nonostante questa carriera leggendaria e straordinaria, egli trattava tutti con gentilezza e rispetto perché ciò era innato in lui, questa idea che ognuno di noi può fare ciò che egli che ha fatto – se siamo disposti a perseverare. Egli credeva che in ognuno di noi esistesse la capacità di un grande coraggio. Che in ciascuno di noi c’è l’aspirazione a fare ciò che è giusto. Che in tutti noi c’è la disponibilità a amare tutte le persone, e estendere loro i loro diritti donati da Dio [quando, qui e altrove, Obama menziona insieme Dio e diritti, fa riferimento alla Dichiarazione di Indipendenza: «Consideriamo verità evidenti per sé stesse che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono stati dotati dal loro Creatore di taluni diritti inalienabili; che, fra questi diritti, vi sono la vita, la libertà e il perseguimento del benessere», NdRufus]. Così tanti di noi perdono questa consapevolezza. Ci viene insegnato a disimpararlo. Iniziamo a pensare che, in effetti, non possiamo permetterci di estendere la gentilezza o il rispetto alle altre persone. Che ce la caviamo meglio se siamo al di sopra delle altre persone e le guardiamo dall’alto in basso, e nella nostra cultura questo è così spesso incoraggiato. Ma John ha sempre detto di aver sempre visto il meglio in noi, e non si è mai arreso e non ha mai smesso di prendere la parola perché ha visto il meglio in noi. Credeva in noi anche quando non credevamo in noi stessi.

E come deputato, non si è mai riposato. Ha continuato a farsi arrestare. Da vecchio, non rimase seduto fuori di nessuna lotta, ma sedette tutta una notte sul pavimento del Campidoglio degli Stati Uniti. So che il suo staff era sotto pressione. Ma le prove a cui la sua fede era stata sottoposta aveva prodotto perseveranza. Sapeva che la marcia non era finita. Che la gara non era stata ancora vinta. Che non abbiamo ancora raggiunto quella benedetta destinazione, dove siamo giudicati per il contenuto della nostra persona [l'”essenza della personalità”, content of our character, in opposizione al colore della pelle, è una citazione dal famoso discorso Ho un sogno di Martin Luther King, NdRufus]. Sapeva dalla sua stessa vita che il progresso è fragile, che dobbiamo essere vigili contro le correnti più oscure della storia di questo paese. Della nostra stessa storia. Dove ci sono vortici di violenza e odio e disperazione che possono sempre sorgere di nuovo. Bull Connor può appartenere al passato, ma oggi assistiamo con i nostri occhi ad agenti di polizia che pongono il ginocchio sul collo di neri americani. George Wallace può appartenere al passato, ma noi assistiamo al fatto che il governo federale mandi agenti a usare lacrimogeni e manganelli contro manifestanti pacifici.

Può essere che non dobbiamo più indovinare il numero di fagioli in un barattolo per poter votare, ma proprio mentre siamo seduti qui, ci sono coloro che sono al potere che stanno escogitando le peggiori scuse per scoraggiare le persone dal votare chiudendo i seggi elettorali, prendendo di mira le minoranze e gli studenti con leggi restrittive sui documenti di identità e attaccando i nostri diritti di voto con precisione chirurgica, persino minando il servizio postale in vista di un’elezione che dipenderà dalle votazioni per corrispondenza per evitare di mettere a rischio la salute delle persone.

So che questa è una celebrazione della vita di John. Ci sono certi che potrebbero dire che non dovremmo soffermarci su queste cose. Ma è per questo che ne sto parlando. John Lewis ha dedicato il suo tempo su questa Terra a combattere gli stessi attacchi che stiamo vedendo circolare in questo momento contro la democrazia e ciò che c’è di meglio in America. Sapeva che ogni individuo fra noi ha un potere dato da Dio e che la fede in questa democrazia dipende da come lo usiamo. Che la democrazia non è automatica. Deve essere accudita. Deve essere curato. Ci dobbiamo lavorare sopra. È difficile. E quindi sapeva che tutto dipende dal fatto che noi mettiamo in gioco una parte, solo una parte del coraggio morale di John, per mettere in discussione ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. E chiamare le cose per quello che sono. Diceva che finché avesse avuto fiato in corpo, avrebbe fatto tutto il possibile per preservare questa democrazia, e fintanto che noi abbiamo fiato in corpo, noi dobbiamo continuare la sua causa.

Se vogliamo che i nostri figli crescano in una democrazia, non solo con le elezioni, ma una vera democrazia, una democrazia rappresentativa, e un’America dal cuore grande, tollerante, vibrante e inclusiva, di perpetua autogenerazione, allora dobbiamo essere più simili a John. Non dobbiamo fare tutte le cose che ha dovuto fare lui, perché lui le ha già fatte per noi. Ma dobbiamo fare qualcosa. Come il Signore ha indicato a Paolo: «Non aver paura! Continua a predicare, e non tacere, perché io sono con te! Nessuno potrà farti del male. Anzi, molti abitanti di questa città appartengono già al mio popolo» (At 18,9b-10). È giusto, tutti devono venire allo scoperto e votare. Abbiamo tutte quelle persone in città, ma non possono non fare qualcosa. Come John, dobbiamo continuare a metterci nei buoni guai. Sapeva che la protesta non violenta è patriottica, un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica e mettere in luce le ingiustizie e mettere a disagio coloro che detengono il potere. Come John, non dobbiamo scegliere tra protesta e politica. Non è una situazione in cui si può scegliere una sola cosa. È una situazione in cui si deve avere l’una e l’altra. Dobbiamo impegnarci in proteste laddove questo è efficace, ma dobbiamo anche tradurre le nostra passioni e le nostre cause in leggi. Pratiche istituzionali. Ecco perché John si candidò al Congresso trentaquattro anni fa. Come John, dobbiamo combattere ancora più duramente per lo strumento più potente che abbiamo, che è il diritto di voto. Ecco perché John corse al Congresso 34 anni fa. Come John, dobbiamo lottare ancora più duramente per lo strumento più potente che abbiamo, che è il diritto di voto.

Il Voting Rights Act è uno dei risultati più alti della nostra democrazia. È per questo che John ha attraversato quel ponte, per questo ha versato quel sangue. E tra l’altro, è stato il risultato degli sforzi di Democratici e Repubblicani. Il presidente Bush, che ha preso la parola qui poco fa, e suo padre, ne firmarono il rinnovo durante il loro mandato. Il presidente Clinton non dovette farlo perché era già legge quando arrivò alla presidenza. Così, invece, ha fatto una legge per rendere più semplice la registrazione delle persone negli elenchi elettorali. Ma una volta che la Corte Suprema ha indebolito il Voting Rights Act, gli organi legislativi di alcuni stati hanno scatenato un diluvio di leggi progettate specificamente per rendere più difficile il voto, specialmente, guarda caso, gli organi legislativi di stati dove le minoranze partecipano molto al voto e crescono demograficamente. Questo non è per forza un enigma o un caso fortuito. È stato un attacco a ciò per cui John ha lottato. È stato un attacco alle nostre libertà democratiche, e dovremmo trattarlo come tale. Se i politici vogliono onorare John, e io sono così grato per l’eredità e l’opera di tutti i leader del Congresso che sono qui presenti, c’è però un modo migliore di una dichiarazione che lo definisce un eroe. Si vuole onorare John? Onoriamolo rivitalizzando la legge per la quale era disposto a morire. E, già che ci siamo, chiamiamola il John Lewis Voting Rights Act, è un bel tributo. Ma John non vorrebbe che ci fermassimo lì. Sto solo cercando di tornare dove eravamo già. questo è un bel tributo. Ma John non vorrebbe che ci fermassimo lì. Ma John non vorrebbe che ci fermassimo a questo. Solo a cercare di tornare dove già eravamo.

Una volta approvato il John Lewis Voting Rights Act, dovremmo continuare a marciare per renderlo ancora migliore, assicurandoci che ogni americano sia automaticamente inserito nei registri elettorali, compresi gli ex detenuti che si sono guadagnati la loro seconda possibilità. Aggiungendo seggi elettorali e espandendo la possibilità di voto anticipato e rendendo il giorno delle elezioni festa nazionale, in modo che se sei qualcuno che lavora in una fabbrica o sei una madre single, che devi andare al suo lavoro e non ha tempo libero, puoi ancora esprimere il tuo voto. Garantendo che ogni cittadino americano abbia pari rappresentanza nel nostro governo, compresi i cittadini americani che vivono nel Distretto della Capitale e a Porto Rico. Sono americani. Facendola finita con la manipolazione per partigianeria della definizione dei confini dei distretti elettorali, in modo che tutti gli elettori abbiano il potere di scegliere i loro politici, non viceversa. E se tutto ciò richiede l’eliminazione dell’ostruzionismo parlamentare in Senato,un’altra reliquia dell’epoca di Jim Crow, al fine di assicurare i diritti che Dio ha concesso ad ogni americano, allora lo dovremmo fare.

Ora, anche se facessimo tutto questo, anche se ogni legge posticcia mirante alla negazione del diritto di voto venisse oggi espunta dai codici, dobbiamo essere onesti con noi stessi ammettendo che troppi di noi scelgono di non esercitare quel diritto. Troppi dei nostri cittadini credono che il loro voto non possa fare la differenza, o si lasciano convincere da quell’atteggiamento cinico che, a guarda caso, è la strategia centrale nella negazione del diritto di voto, che mira a scoraggiare, a far smettere di credere nel proprio potere. Quindi, ci dovremo anche ricordare di ciò che John ha detto. Se non si fa tutto il possibile per cambiare le cose, queste rimarranno le stesse. Si percorre questa strada solo una volta. Si deve dare tutto tutto ciò che si ha. Fin tanto che i giovani protestano per le strade con la speranza che si verifichi un vero cambiamento, io sono fiducioso, ma non possiamo abbandonarli davanti alle urne facendo finta di niente. Non quando poche elezioni sono state così stringenti su così tanti livelli come questa. Non possiamo considerare il voto come una commissione da fare se ci rimane del tempo. Dobbiamo considerarlo come l’azione più importante che possiamo intraprendere a favore della democrazia e, come John, dobbiamo dare tutto ciò che abbiamo.

Ero orgoglioso che John Lewis fosse un mio amico. L’ho incontrato quando studiavo Giurisprudenza. Venne per una conferenza. E io mi sono alzato e ho detto: «Signor Lewis, lei è uno dei miei eroi. Ciò che mi ha ispirato più di ogni altra cosa da giovane è stato vedere quello che lei e il reverendo Lawson, Bob Moses, Diane Nash e altri avete fatto». E lui ha tirato fuori quel suo: «Oh, ma non deve, grazie mille». La successiva volta che l’ho visto, ero stato eletto al Senato degli Stati Uniti. E gli ho detto: «John, sono qui per causa tua». E il giorno dell’inaugurazione 2008/2009, è stata una delle prime persone che ho salutato e abbracciato in quella tribuna. E gli ho detto: «Anche questa è la tua giornata».

Era un uomo buono, disponibile e gentile. E credeva in noi. Anche quando non crediamo in noi stessi. Ed è appropriato che l’ultima volta che io e John abbiamo condiviso un incontro pubblico sia stato su Zoom. E sono abbastanza sicuro che né lui né io abbiamo impostato la chiamata Zoom perché non sapevamo come farla funzionare. Era un dibattito nella forma del town hall con un raduno di giovani attivisti, che avevano contribuito a condurre le manifestazioni di questa estate sulla scia della morte di George Floyd. E al termine, ho parlato con John in privato. E non avrebbe potuto essere più orgoglioso di vedere questa nuova generazione di attivisti che si era messa in gioco per la libertà e l’uguaglianza. Una nuova generazione che prestava grande attenzione al voto e al proteggere il diritto di voto. In alcuni casi, una nuova generazione in corsa per una candidatura. E gli ho detto che tutti quei giovani, John, di ogni razza e religione, di ogni provenienza e genere e orientamento sessuale – John, quelli sono i tuoi figli. Hanno imparato dal tuo esempio, anche se non sempre lo sanno. Avevano capito attraverso di lui ciò che la l’essere cittadini americani richiede, anche se avevano sentito parlare del suo coraggio solo attraverso i libri di storia.

A migliaia, i giovani anonimi, senza volto, neri e bianchi, hanno riportato la nostra nazione «di nuovo a quei grandi pozzi di democrazia che sono stati scavati in profondità dai Padri Fondatori nella formulazione della Costituzione e della Dichiarazione di Indipendenza». Il dottor King lo disse negli anni ’60. E si è avverato di nuovo quest’estate. Lo vediamo fuori dalle nostre finestre nelle grandi città e nelle città rurali. In uomini e nelle donne; giovani e vecchi; americani etero e americani LGBTQ; neri, che anelano alla parità di trattamento, e bianchi, che non possono più accettare la libertà per se stessi mentre assistono alla sottomissione dei loro compatrioti americani. Lo vediamo in tutti coloro che fanno il duro lavoro di superare l’autocompiacimento, di superare le nostre stesse paure e i nostri propri pregiudizi, i nostri odi. Lo si vede nelle persone che cercano di essere migliori, versioni più vere di noi stessi.

Ed è quello che ci insegna John Lewis. Che ciò è da dove viene il vero coraggio, non dall’aggredirsi a vicenda, ma volgendosi l’uno verso l’altro. Non seminando odio e divisione, ma diffondendo amore e verità. Non evitando la nostra responsabilità di creare un’America migliore e un mondo migliore, ma abbracciando quella responsabilità con gioia e perseveranza e scoprendo che, nella nostra amata comunità, non camminiamo da soli.

Che dono era John Lewis. Siamo tutti così fortunati da averlo avuto a fianco del nostro cammino per un po’ e a mostrarci la strada. Dio vi benedica tutti. Dio benedica l’America. Dio benedica questa anima gentile che l’ha portata più vicina alla sua promessa. Grazie mille.

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