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L’importante è ricominciare

Con buona pace di quello che ho scritto (o più probabilmente, per i motivi esposti in) un articolo del 16 marzo, in questo periodo il blog è rimasto sostanzialmente fermo: l’ultimo articolo è del 5 maggio, figuramoci.

È almeno da un mese, in realtà, che avrei voluto ricominciare a curare il blog. Solo che prima c’erano due articoli che avevo cominciato a scrivere e che mi sembravano necessari per ricominciare e che invece non finivano mai, e poi c’erano gli impegni di lavoro e di gestione della casa che complicavano tutto, e poi storie di chiusure e di riaperture e di statue e di razzismi sui quali avrei voluto scrivere cose che sapevo essere così fuori della polarizzazione dominante che davvero non ho avuto voglia.

Poi il fidato aggregatore di notizie mi ha proposto un articolo di critica letteraria della London Review of Books su William Wordsworth, figuriamoci: che avevo molto amato intorno ai sedici anni, preferendo lui e Coleridge e la prima generazione dei romantici inglesi alla seconda di Keats, Shelley e Byron (il che dimostra ancora una volta che la mia insegnante di inglese del liceo, da cui avevo preso l’opinione, aveva delle… imperfezioni, diciamo), ma che insomma, non avevo più toccato da almeno trent’anni (mentre un paio d’anni fa mi sono letto The Corsair di Byron in inglese, devo dire, trovandolo difficilissimo).

E insomma, da qualche parte bisogna ripartire. L’importante è ripartire. E quindi ho tradotto l’articolo e ve lo propongo. Non è esattamente un articolo di critica letteraria, in realtà: è piuttosto una riflessione a partire dalla pubblicazione recente di due biografie di Wordsworth: Radical Wordsworth: The Poet who Changed the World di Jonathan Bate (William Collins, £ 25) e William Wordsworth: A Life di by Stephen Gill (Oxford, nuova edizione, £ 25). Ho controllato: nessuno dei due dovrebbe essere stato tradotto in italiano, quindi siamo veramente nel campo degli articoli esoterici del blog, quelli di nessuna utilità pratica che però a me piacciono tanto.

Che va bene così, esattamente, per ripartire. E dopotutto dico sempre che il blog lo tengo soprattutto per me, e quindi ben venga l’esoterismo senza alcuna utilità pratica.

O forse no: perché nella riflessione su Wordsworth di Thomas Keymer (di cui vedo che è in uscita un libro su Jane Austen, ma guarda) c’è tutta una discussione in controluce sulla sorte dei vecchi rivoluzionari, che è un tema mi ha sempre interessato molto, tanto da essere stato più volte sul punto di farci sopra un gioco. Non è solo un tema che riguarda i miei interessi personali: perché in realtà si tratta del giudizio storico da dare su figure complesse e sfaccettate che hanno avuto nel tempo posizioni politiche diverse e anche contraddittorie, che è esattamente il tema del giorno (per dirla esplicitamente, ci saranno in giro per l’Inghilterra statue di Wordsworth?).

L’articolo è irto di titoli di opere di poeti romantici, dei quali ho mantenuto la forma in inglese; ho visto che anche la Treccani fa così, quindi mi sento tranquillo e poi ho scoperto, con sorpresa, che le traduzioni in italiano di Wordsworth e degli altri romantici non sono poi moltissime e molti titoli non mi sembrano avere una versione italiana comunemente accettata. La comprensione dell’articolo invece richiedeva, purtroppo, di svolgere in italiano i versi che periodicamente sono citati: purtroppo l’antologia di poeti romantici della libreria di casa non forniva traduzioni adatte e sulla rete non ne ho trovato, quindi con assoluto sprezzo del pericolo le ho tradotte io.

Wordsworth il Girondino

di Thomas Keymer

John Keats si recò a piedi nel Distretto dei Laghi nel giugno del 1818. Era la prima estate decente da quando tre anni prima l’eruzione di un vulcano indocinese aveva sprofondato l’Europa del dopoguerra in una crisi di raccolti mancati, popolazioni affamate e diffuso disordine sociale. In Inghilterra, il governo di Lord Liverpool aveva sospeso l’Habeas corpus; agitatori luddisti, rivoluzionari ispirati da Spence e giornalisti radicali erano stati arrestati e sottoposti a processo (con risultati contraddittori); il massacro di Peterloo e le repressive Sei leggi erano proprio dietro l’angolo. Windermere sorpassò le aspettative di Keats: «Splendida acqua – spiagge e isole verdi fino al margine – montagne tutto attorno fino alle nubi». Ma non era solo per il panorama che era andato fin lì. Anelava di incontrare Wordsworth, il poeta della libertà e dell’umanità, la grande voce filantropica dei poveri delle campagne. Fece le sette miglia di pellegrinaggio fino a Rydal Mount, la scenografica dimora di Wordsworth nei pressi di Ambleside, ma era tempo di elezioni nel Westmorland, e il saggio di Rydal era fuori, a procurare voti per i Tory.

Non proprio per dei Tory qualunque. La famiglia Lowther era composta di nobili possidenti terrieri che avevano anche ampi interessi nell’estrazione del carbone, e che aspiravano al dominio politico sull’intero Nordovest. Trattavano il Westmorland come un distretto elettorale privato fin dai giorni di sir James (Jimmy il perverso) Lowther, primo Conte di Lonsdale: un uomo che Thomas de Quincey definì «un vero capotribù feudale», noto per per il suo «carattere ombroso e l’abitudine alla sopraffazione». Jimmy il perverso passò a un mondo migliore (o peggiore) nel 1802, momento nel quale il grosso debito che doveva al defunto padre di Wordsworth, che aveva passato molti ingrati anni come suo agente legale, fu finalmente saldato. Ma i Lowther continuarono a operare in gran parte come avevano fatto in precedenza, e i nove seggi che essi controllavano ai Comuni erano il cuore della base di potere di Lord Liverpool a Westminster. Nessuno aveva osato candidarsi contro di loro per più di quarant’anni, ma questa volta il loro avversario era formidabile – Henry Brougham, un energico liberale che promuoveva tutte le cause sbagliate – e i Lowther non erano il genere di persone che lasciasse niente al caso. Usarono ogni metodo disponibile per assicurarsi che niente andasse storto: manipolare i registri fiscali della proprietà fondiaria per cancellare dalle liste elettorali i sostenitori dei Whig e trasferire in forze picchiatori prezzolati per tenere sotto controllo i comizi elettorali. Wordsworth si muoveva sul lato più presentabile dell’operazione, e in Two Addresses to the Freeholders of Westmorland aveva serenamente spiegato che la libertà di espressione avvelenava le menti e che i riformatori stavano corrodendo il tessuto sociale, così che una severa legislazione era necessaria per impedire la rivoluzione. La sintesi di Tomas Lovecock non era scorretta: «Wordsworth ha pubblicato un Address to the Freeholders, in cui dice che non dovrebbero scegliere un uomo tanto povero come Brougham, perché i ricchi sono la sola garanzia di integrità politica ».

Wordsworth non era il solo che avesse fatto marcia indietro fra coloro che erano stati radicali durante l’epoca della rivoluzione francese di venticinque anni prima. I Lakers (come Francis Jeffrey li aveva etichettati derisoriamente nel 1814) si spostarono tutti nello stesso senso, che fosse per convinzione, pragmatismo, o entrambi. Robert Southey, il cui dramma esplosivo Wat Tyler (1794) era stato troppo esplicito perché anche l’editore più spericolato potesse prenderlo in considerazione all’apice del panico rivoluzionario, stava allegramente sfornando odi di regime nel suo ruolo di poeta laureato. Southey era coerente, come osservò asciuttamente William Hazlitt, solo nel fatto di essere sempre stato un estremista e sempre in errore: ai tempi, era stato un «ultra giacobino» e «freneticamente demagogico» che «non si fermava neanche di fronte all’anarchia generale»; ora, era un «ultra-realista» e «un servile strumento della Corte» che «si spinge fino all’estremo del dispotismo». Poi c’era Samuel Taylor Coleridge, che John Thelwall – un estremista degli anni ’90 che era rimasto fedele alle sue bandiere – ricordava fosse stato, all’apogeo di Robespierre e Saint-Just, «senza dubbio uno zelante livellatore e addirittura in uno dei peggiori sensi della parola… un giacobino, un uomo di sangue». Ora, insieme a elevati esercizi di filosofia e teologia conservatrici come The Statesman’s Manual (1816), Coleridge scriveva giornalismo d’assalto per il Courier, il principale organo di propaganda del governo Liverpool.

Anche così, c’era qualcosa nella giravolta politica di Wordsworth che era difficile mandar giù. I Lakers erano tutti «violenti e intolleranti nei confronti delle loro vecchie opinioni», come scrisse Leigh Hunt durante il suo famoso periodo in prigione per sedizione a mezzo stampa, ma Wordsworth era il genio tra loro, e per questo motivo la sua apostasia era la più disturbante. È difficile immaginare che Percy Shelley si desse il disturbo di scrivere una poesia per il fluente, spontaneo Southey o addirittura per il brillante, imperfetto Coleridge (l’affermazione di Mary Shelley che Oh! Ci sono spiriti dell’aria parli di lui è molto dubbia). Ma Wordsworth era il poeta della natura e il sonetto di Shelley, pubblicato per la prima volta in Alastor (1816) lamenta della perdita di una stella che aveva brillato nel profondo della notte d’inverno; una voce che aveva consacrato canzoni alla libertà e alla verità. Wordsworth poteva ancora prosperare, non da ultimo grazie ai Lowther, che qualche anno prima lo avevano sistemato come distributore di francobolli per Westmorland (non una sinecura; richiedeva del lavoro), ma per Shelley era morto e avrebbe dovuto essere pianto: «Abbandonando queste [libertà e verità, NdRufus], mi lasci col dolore, / per quello che sei stato, che tu non lo sia più».

Per Hazlitt, il disappunto politico era accentuato dall’affetto che ancora provava per Wordsworth. Oltre allo sconforto consueto, gli articoli giornalistici di Hazlitt offrono immagini vivide di Wordsworth nella sua forma migliore del 1790, i suoi occhi accesi «come se vedesse negli oggetti qualcosa di più dell’aspetto esteriore» e, nonostante la sua serietà, «una tendenza inarrestabile al riso attorno alla bocca». Quando i due uomini si incontrarono per la prima volta nel Somerset appena prima della pubblicazione di Lyrical Ballads (1798), Wordsworth indossava pantaloni a righe verticali (un oggetto radical chic di ispirazione francese) e stava demolendo un formaggio del Cheshire. Parlava con «accenti chiari e entusiasti nella sua voce, una profonda intonazione gutturale e una robusta coloritura dell’erre moscia del nord, come la muffa sul vino».

Apostasia è un termine forte, anche se all’epoca era usato spesso da Wordsworth (si lamentava privatamente dei critici «che hanno impiegato così liberamente le parole renegado [così in originale, NdRufus], apostata ecc.) ed è ancora regolarmente utilizzato oggi. L’idea del tradimento religioso rimane centrale, esattamente come rinnegato indica tradimento e ribellione che vanno oltre un semplice cambiamento di militanza. Tuttavia, quanto conta davvero l’apostasia di Wordsworth in pratica? Hazlitt e Hunt erano sufficientemente intelligenti e di mentalità aperta da capire che essere un conservatore o diventarlo non necessariamente ti rende un cattivo poeta. Con molta più eloquenza dei saggisti Tory della Quarterly Review sostennero la reputazione letteraria di Wordsworth nel periodo di The Excursion (1814), esaltando la poesia nello stesso istante nel quale deploravano la politica, che consideravano semplicemente come una circostanza biografica. Byron perse la pazienza con The Excursion, che riteneva ampolloso, ma colse il problema con perfetta sinteticità: «Wordsworth – genio stupendo! maledetto cretino!».

Resta il fatto che Wordsworth scrisse la maggior parte dei suoi versi migliori negli anni ’90, certamente prima del 1805, e che il suo declino creativo coincise con (chissà se fosse stato causato da) il suo conversione al conservatorismo Tory. Nella vita reale, divenne poeta laureato dopo Southey e morì nel 1850 all’età di ottanta anni. Ma a un certo punto della sua vivace nuova biografia, Jonathan Bate propone un’ipotesi immaginaria notevole: un incidente di pattinaggio del 1807 in cui Wordsworth resta ucciso cadendo attraverso il ghiaccio a 36 anni, l’età di Byron alla sua morte in Grecia. I due volumi dei Poems del 1807 sarebbero stati in stampa, ma non ci sarebbero stati Ecclesiastical Sketches (102 pomposi sonetti sulla storia della Chiesa, pubblicati nel 1822). Per quanto riguarda The Prelude, l’innovativa epica del sé di Wordsworth, sarebbe stata pubblicata prontamente, si suppone, nella ipnotica versione esplorativa del 1805, «senza che Wordsworth passasse quasi quarant’anni a rivederla, quasi sempre in peggio». La famiglia avrebbe pubblicato altri importanti manoscritti dell’epoca delle Lyrical Ballads (The Ruined Cottage, The Pedlar, Home at Grasmere) che durante la vita di Wordsworth apparvero solo in The Excursion, cannibalizzati e attenuati. Non solo la sua reputazione individuale, ma l’intera storia della poesia sarebbe stata cambiata.

È un intrigante esperimento speculativo, trattato con appena un po’ più di passione di quanta ci si potrebbe aspettare da un biografo. Bate si sposta quindi rapidamente attraverso gli anni più tardi (il libro è dichiaratamente selettivo e rispecchia l’estetica di Wordsworth nella preferenza per attimi nel tempo a doverose completezze), mettendo in mostra poesie successive come Thanksgiving Ode o il sonetto ecclesiastico sull’American Episcopacy principalmente per ridere. Si tratta di bersagli facili («Ma il tuo più temuto strumento / nell’elaborare un puro intento / È l’Uomo – schierato per strage mutua – / Si, Carneficina è figlia tua!»), ma la musa di Wordsworth è sempre stata inaffidabile. Bate falcia via ampie parti del canone e molto sopravvive dopo The White Doe of Rylstone, composto nel 1807 ma non pubblicato fino al 1815 («Questo, pensiamo, ha il merito di essere assolutamente il peggior poema che abbiamo mai visto stampato in un volume in-quarto», scrisse la Edinburgh Review). Una manciata di sonetti come il dolente, elegiaco Surprised by Joy e poche cose della serie del River Duddon del 1820 meritano di essere strappati alle fiamme, pensa Bate, insieme a Extempore Effusion on the Death of James Hogg (che era non è affatto estemporanea – ha passato nove versioni di manoscritti e quattro versioni pubblicate). Ma, in sostanza, «la seconda metà della vita di Wordsworth è stata il declino più lungo e noioso nella storia della letteratura».

Questa narrazione di una atrofia creativa rimane la visione prevalente e Bate la ribadisce con piglio e convinzione, nel mentre aggiungendo la sua personale enfasi su Wordsworth come proto-ambientalista. Aggira con cura le recenti rivalutazioni dei versi più tardi, inclusa la tesi di Stephen Gill in Wordsworth’s Revisitings (2011) secondo cui il Prelude revisionato del 1850 era molto più di un lavoro di limitazione del danno su un testo originariamente eretico. Argomenti simili animano la seconda edizione riccamente emendata della biografia di Gill (la prima è apparsa nel 1990), che rifiuta la traiettoria abituale e celebra invece «ottant’anni di vita poliedrica e altamente creativa». Il Wordsworth di Gill non è solo il visitatore ventunenne per il quale la Parigi rivoluzionaria era l’alba della beatitudine, ma anche il 70enne che scalò l’Helvellyn «e compose un bel sonetto nel farlo». Il radicalismo è una parte della storia e non la sola che abbia valore.

Vale la pena di chiedersi quanto radicale fosse il primo Wordsworth. Come termine politico, la parola entrò in uso alla fine del XVIII secolo (termini collegati come radicalismo seguirono all’inizio del XIX) con un significato che tendeva a fermarsi giusto prima di rivoluzionario. Un radicale sosteneva «riforme politiche profonde o di vasta portata» (l’Oxford Enlish Dictionary cita un caso del 1793 riferito a Charles James Fox); Giacobino era l’alternativa usata per descrivere posizioni più estreme che respingevano il riformismo. È difficile applicare questo secondo termine a Wordsworth, anche se talvolta è stato usato nei suoi confronti (nonostante le sue meticolose revisioni del Prelude, ancora nel 1850 Thomas Macaulay poteva tuonare che «il poema è in ogni sua parte giacobino, anzi socialista»). Fu uno dei molti visitatori inglesi a Parigi tra la caduta della Bastiglia e il Terrore di Robespierre e l’esperienza lo segnò profondamente, ma in modi complessi. Grazie a una lettera di presentazione della poetessa e romanziera Charlotte Smith, incontrò e probabilmente alloggiò con l’inflessibile rivoluzionario Jacques-Pierre Brissot, e si sa che partecipò a un infuocato dibattito al Club dei Giacobini nel dicembre 1791. Ma Brissot ruppe con i Giacobini pochi mesi dopo, e le relazioni di Wordsworth a Parigi erano principalmente Girondini – come i Giacobini, sostenevano la violenza rivoluzionaria, ma erano una fazione più moderata – come il giornalista Antoine-Joseph Gorsas, della cui esecuzione può essere stato testimone nel 1793, lo stesso anno in cui Brissot fu ghigliottinato. Durante i suoi mesi a Orléans e a Blois Wordsworth frequentò realisti e addirittura si innamorò di una di loro, Annette Vallon, la madre del suo primo figlio, le cui attività controrivoluzionarie sono registrate negli archivi di polizia rimasti. La connessione personale non corrisponde alla convinzione politica, ma al momento dei Massacri di settembre del 1792 Wordsworth stava chiaramente mettendo in dubbio il suo entusiasmo iniziale per una rivoluzione che stava già collassando in una carneficina e che alla fine sarebbe degenerata nell’imperialismo (in particolare lamentò l’invasione della Svizzera) e dittatura (Napoleone). La sua esperienza è simile a quella del Solitario nel Libro Terzo di The Excursion, che trae dapprima incoraggiamento dalla Rivoluzione francese e dalla «emancipazione del mondo» che sembra promettere, ma poi si ritrae dal suo militarismo e dispotismo con «dispiacere e disgusto».

Un problema è che la fonte biografica di gran lunga più completa per il Wordsworth Girondino dei primi anni del 1790 è il Prelude del 1805, un’opera che medita sull’affidabilità della memoria. Il soggetto autobiografico diventa «due consapevolezze»”, il sé descritto del passato e il sé descrittivo nel presente – quest’ultimo che affronta la proiezione immaginativa tanto quanto il ricordo neutro. Il Prelude, in altre parole, riconosce esplicitamente che nella ricostruzione degli stati mentali precedenti, «non si può dire quale parte sia in verità / il nudo ricordo di quel tempo, / e cosa invece possa essere stato chiamato alla vita/ dalla riflessione del poi». Una parte della riflessione del poi è enfaticamente politica, così che proprio nel momento nel quale il poema ricorda uno stato di idealismo rivoluzionario, si ritrae da quello stato, «poiché gli errori giovanili sono il mio tema».

Wordsworth su Helvellyn,
opera di Benjamin Robert Haydon

La Letter to the Bishop of Llandaff di Wordsworth è è il suo massimo avvicinamento alla scrittura sediziosa, ma questo pamphlet non firmato, scritto nel 1793, rimase inedito e politicamente Wordsworth fece in modo di non attirare attenzione su di sé, anche se altri nella sua cerchia divennero famosi. Non fu considerato degno di essere citato nella satira conservatrice più famosa dell’epoca, l’esuberante vignetta New Morality (1798) di James Gillray, che colloca Coleridge e Southey a fianco di grottesche caricature delle virtù rivoluzionarie Giustizia, Filantropia e Sensibilità (Sensibilità accarezza un uccello morto mentre calpestare una testa umana). La sua unica azione da rivoluzionario fu un non-evento, conosciuto soprattutto per la versione comica di Coleridge in Biographia Literaria (1817), nella quale uno sciocco agente del Ministero degli interni di nome James Walsh li sente discutere di spia nota (Spinoza) [Spy Nozy nell’originale, cioè “spia ficcanaso”, NdRufus] e crede di esser stato scoperto. All’epoca Wordsworth e Coleridge erano nel Somerset, a paseggiare, parlare, comporre materiale per Lyrical Ballads e ricevere visitatori, incluso Thelwall col suo tipico cappello bianco (che ricade nella stessa categoria dei pantaloni a righe di Wordsworth). Le eccentricità di Wordsworth spaventarono gli indigeni, ricordava l’editore di Bristol Joseph Cottle: uno «lo vide aggirarsi di notte e guardare stranamente alla luna!»; un altro «lo sentì mormorare, mentre camminava, in una qualche bizzarra parlata, che nessuno poteva capire!»; un terzo sospettava che «avesse un qualche proficuo traffico sul genere del contrabbando»; un quarto lo riteneva «sicuramente un giacobino francese calzato e vestito, perché è così silenzioso e riservato, che nessuno gli ha mai sentito dire una parola sulla politica!». L’agente del Ministero degli Interni sospettava che il gruppo stesse facendo i rilievi per un sito di invasione, poi concluse che «non si trattava di una faccenda francese ma di una malevola banda di inglesi scontenti… una congrega di violenti Democratici». I suoi capi a Londra persero interesse.

Nella sua poesia, Wordsworth non arrivò mai al punto di Coleridge, la cui egloga bellica del 1794, Fire, Famine, and Slaughter [“Fuoco, carestia e massacro”, NdRufus], immagina l’assassinio del primo ministro, William Pitt il Giovane, con entusiasmo allarmante («Dovranno impadronirsi di lui e della sua stirpe – / lo squarteranno pezzo a pezzo!»). In frammenti come The Pedlar così come in molte delle Lyrical Ballad, Wordsworth mise al centro dei suoi versi immagini di espropriazione, sottintendendo spesso nel farlo, e talvolta affermando, che la loro difficile situazione richiedeva un’azione politica: «È contro di questo / che noi stiamo combattendo», dichiara il rivoluzionario Beaupuy in The Prelude, indicando «una ragazza morsa dalla fame». Fu il tentativo di Wordsworth non solo di immaginare un’umile vita rustica ma di adottare il suo linguaggio che portò Hazlitt a parlare della sua «Musa livellatrice». Hazlitt sosteneva persino che i «princìpi giacobini» diedero origine sia in Wordsworth che in Coleridge alla «poesia giacobina… Il loro genio, il loro stile, il loro modo di versificare, ogni cosa fino alla loro ortografia, era rivoluzionario». Ma almeno in termini di linguaggio, Wordsworth non riuscì mai a catturare la voce autentica proveniente dal basso come fecero Robert Burns o John Clare, o a deplorare la politica delle espropriazioni con qualcosa che si avvicinasse alla loro autorità. Alcuni dei momenti più interessanti (e dolorosi) in Lyrical Ballads giungono quando riflette con un certo disagio sulla sua lontananza dall’esperienza e dal linguaggio dei contadini – la sua distanza patrizia (nonostante quella erre strascicata del nord) da subalterni che non possono parlare. Simon Lee, the Old Huntsman è un poema sulla povertà, l’età avanzata e la tragica incapacità, dal punto di vista di un passante appartenten all’élite che cerca di penetrare nella difficile situazione del cacciatore un tempo potente. Lo fa goffamente, e rende il tutto peggiore. In un passaggio carico di sottili accenni all’emasculazione, il vecchio Simon fende debolmente per ore una radice che il narratore taglia senza pensarci con un solo colpo. Simon piange, superficialmente di gratitudine, ma implicitamente per la comprensione della propria debilitazione – il suo stato ormai irreparabile di essere «sottodimensionato» di fronte alla vita [overtasked letteralmente indicherebbe un compito superiore alle proprie capacità, NdRufus]. La ballata termina in toni che intendono il rimorso: «Ho spesso sentito di cuori scortesi, azioni gentili / col gelo che torna frattanto / Ecco! La gratitudine degli uomini / mi ha di solito lasciato il rimpianto».

Nel 1801 Wordsworth si congratulò con un lettore di Lyrical Ballads per aver identificato il pathos dei poemi come «pathos dell’umanità» e non «pathos giacobinico»; solo «cattivi poeti e uomini sviati», scrisse, legherebbero i propri versi al giogo di una causa politica. Nei primi anni del XIX secolo la sua ritirata dal radicalismo era in corso da tempo, ma forse il radicalismo non fu mai assoluto. E forse non è mai completamente morto. L’anziano Wordsworth può ancora sorprenderci, come ha certamente sorpreso il Cartista Thomas Cooper quando, appena uscito dal carcere di Stafford, si presentò senza preavviso a Rydal Mount nel 1846. Wordsworth accolse Cooper e lodò gli obiettivi, sebbene non i metodi, del movimento Cartista («Non ho rispetto per i Whig, ma ho molto del Cartista in me», disse in un’altra occasione). Cooper se ne andò «con una sensazione più intensa di essere stato in presenza di una buona e grande intelligenza, di quanta abbia mai provato in nessun altro momento della mia vita».

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