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Ragazzi molto maschi, ragazze un po’ meno

Con Maria Bonaria stiamo approfittando della ricomparsa di Friends su Netflix (o forse c’era sempre stato, boh) per fare un ripasso. Abbiamo visto, in un paio di settimane, tutta la prima serie.

Non mi ricordo chi mi abbia detto, recentemente, che lo trova invecchiato male. Dal punto di vista comico non mi sembra: c’è una scrittura di ferro, loro sono bravissimi, i tempi comici sono perfetti e le gag di solito piuttosto riuscite. Funzionano meno le parti più dirette a creare pathos o immedesimazione nei personaggi, ma questo non dipende tanto, credo, dal fatto che i personaggi non siano oggi più attuali e quindi sembrino più distanti e meno coinvolgenti, quanto dal fatto che oggi le serie siano scritte con sofisticazione molto maggiore e quindi, rispetto a quel che vediamo abitualmente, Friends sembra più semplice, ecco. Il raffronto andrebbe fatto con serie comiche attuali di trenta puntate a stagione ciascuna di venti minuti, e a confronto di una produzione del genere Friends farebbe ancora un’ottima figura.

Invece c’è una dimensione, collaterale ma importante, che è abbastanza invecchiata. Forse non rende brutto lo show, ma certo si nota con chiarezza.

No, non mi riferisco a vestiti e acconciature, che pure sono così distanti da sembrare alieni, e nemmeno alle descrizioni di una società pre-crisi che sembra oggi piuttosto lontana in tutte le sue varie caratteristiche (Friends è un po’ il canto del cigno della Generazione X, diciamo).

Non penso neanche al tema delle relazioni di genere, che pure è il nucleo narrativo attorno al quale gira la storia; ci sono ogni tanto delle battute (larvatamente?) sessiste che mi hanno fatto sobbalzare, ma la mia ipotesi di lavoro al momento è che a stare dietro a queste cose si finisce per diventare dei bigotti reazionari, quindi per un prodotto di più di vent’anni fa non me ne faccio un problema.

Il fatto, piuttosto, è che l’occhio del narratore è dichiaratamente maschile (nonostante Marta Kauffman). È vero che ci sono sei personaggi, ognuno con la propria evoluzione, ma l’unica trama realmente ricorrente è quella, classicamente maschile, del ragazzo un po’ goffo che ama la ragazza bellissima. È vero che c’è la concessione allo spirito dei tempi del presentare una coppia lesbica, ma l’occhio che le osserva è quello di Ross, cioè ancora maschile.

Il punto, in realtà. è che tutti e sei i personaggi sono un misto di stereotipi e profondità inaspettate, che gli sceneggiatori scandagliano pian piano. Ma gli stereotipi maschili sono molto più immediati e dichiarati: Ross è il ragazzo goffo, Chandler è tenero e Joey si dà arie di uomo vissuto, ma tutti e tre sono, alla fin fine, testosteronici: l’interesse principale nella vita è dare la caccia alle ragazze, con diverso successo a seconda dei personaggi ma comunque sempre sulla stessa linea.

Sono stereotipi piuttosto banali, ma facilmente riconoscibili. Non pongono problemi di descrizione, e sono stereotipi maschili assegnati a personaggi, guarda caso, maschili. Nel corso delle puntate abbondano anche i momenti e i riti tipicamente maschili, l’aria di fratellanza, la saggezza (maschile) dispensata a piene mani, il poker del venerdì, il biliardino, «dammi il cinque» e compagnia bella.

Al contrario, fra le tre ragazze l’unica a incarnare uno stereotipo classicamente femminile è Rachel: fa l’oggetto del desiderio per definizione, o la donna oggetto, e tanto basta. Per creare il gioco dell’elastico con Ross ogni tanto Rachel cambia partner, ma è sempre in possesso di qualcuno (che, ovviamente, non è Ross): o è un focoso italiano di passaggio o è il suo ex fidanzato che si rifà sotto, ma il discorso cambia poco. Phoebe è una specie di santona no global matta e Monica una maniaca del controllo, ma non sono ruoli narrativi tipicamente femminili: si possono benissimo scrivere personaggi maschili con le stesse caratteristiche di fondo e pochi cambiamenti esteriori (negli stessi anni col corrispettivo del personaggio di Monica portato all’eccesso si faceva la serie sul’ispettore Monk, per dire).

E anche le ritualità stereotipicamente femminili raccontate sono piuttosto poche: lo shopping compulsivo di Rachel – guarda caso – e gli urletti con le mani in alto che fanno ogni tanto Rachel – guarda caso – e le sue amiche.

Il che, riflettevo stamattina sotto la doccia, crea uno sviluppo narrativo curiosamente asimmetrico in uno show costruito in realtà per corrispondenze: tre ragazzi e tre ragazze, un ragazzo ama una ragazza, un fratello e una sorella, due ragazzi vivono insieme, due ragazze vivono insieme e così via. I personaggi dei ragazzi sono apparentemente dominanti, meglio definiti e tratteggiati, più riconoscibili. E però sono i personaggi delle ragazze che sono, narrativamente, più liberi, più sfaccettati e più facili da approfondire e fare evolvere, volendo.

Solo che, almeno nella prima stagione, gli sceneggiatori in qualche misura si ritraggono: non definiscono con più secchezza i personaggi femminili ma non li esplorano nemmeno a sufficienza e, quando devono dedicare una puntata a Monica o Phoebe, non giocano sulle sfaccettature ma vanno a rispescare nell’armamentario degli stereotipi, vedi il caso di Monica che deve gestire il rapporto con un ragazzo molto più giovane.

Poi naturalmente di tutti i personaggi di Friends quella che è realmente passata alla storia è Rachel, cioè il personaggio femminile più stereotipato – Courtney Cox, in partenza, era più famosa ma Monica si ricorda molto meno – e questo dovrebbe dirci qualcosa sia sulla bravura di Jennifer Aniston che su come certe regole narrative siano difficili da scalfire, ma questo, magari, è un altro discorso, o forse è lo stesso.

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