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Fotogiornalismo da non perdere

Nel mio recente giro per l’interno della Sardegna, in uno dei momenti nei quali Google Maps non mi portava fuori strada, sono andato a Gavoi.

Volevamo vedere la mostra World Press Photo Exhibition 2019, l’esibizione delle foto scattate dai finalisti di uno dei più importanti concorsi di reportage fotografici al mondo (il cui passaggio per Gavoi, fra l’altro, è un piccolo miracolo che merita parecchio rispetto).

La mostra resta fino al 24 novembre e, considerato anche che il paese è piacevole e i ristoranti di tutto rispetto, consiglio caldamente di recuperarsi un momento per andare a vederla, godersi il paese e sbafarsi specialità barbaricine, nell’ordine che preferirete.

Segnalo piuttosto, perché vedo che dappertutto si avvisa il pubblico che la mostra contiene immagini piuttosto forti, che secondo me la visione è invece grosso modo possibile per chiunque: c’è una sola immagine spaventosa (e però bella in modo terribile), quella delle rane nella sezione Natura. Per il resto ci sono molte foto che colpiscono, emozionano, rattristano, commuovono o fanno pensare, ma non nel senso da causare gli incubi la notte – non più che se uno si ferma a pensare a dove stiamo andando, ecco.

Il fatto che vengano presentati i finalisti delle due sezioni principali, foto singola e reportage, e insieme sei autori per ciascuna delle varie sottosezioni (la citata Natura e poi Argomenti contemporanei, Ambiente, Attualità generale, Progetti a lungo termine, Ritratti, Sport, Notizie istantanee) aiuta a trovare motivi di interesse e anche a dare un tono molto variegato alla mostra, che alterna toni, umori, ambienti, luoghi e tematiche in modo molto interessante.

In qualche modo girare la mostra aiuta a farsi un rendiconto dell’anno passato: soprattutto nelle sezioni di attualità passano gli argomenti che hanno occupato le prime pagine: i migranti, le crisi umanitarie o ambientali, le guerre. E insieme, però, emergono le storie rimaste sullo sfondo o perdute nelle pieghe delle narrazioni: la situazione di paesi lontani e trascurati, le figure individuali che si staccano dai destini collettivi, le tendenze emergenti che, con sorpresa, trovi indicate con discreta chiarezza (cosa vorrà dire, per esempio, che torni più volte il tema delle donne pugili?).

Non è una mostra gigantesca, però è discretamente vasta. Quando siamo arrivati alla fine non avevamo più tempo, ma in realtà sarebbe stato il caso di girarla di nuovo da capo. Perché la prima volta, ovviamente, ti perdi nelle didascalie, vuoi sapere a cosa si riferiscono le storie o chi sono le persone, oppure ti fermi alle sensazioni epidermiche.

La dimensione tecnica, sia nel senso specificamente fotografico che sul piano della narrazione, di come il fotografo ha scelto di dare la notizia, sfugge, e avendo il tempo questo dovrebbe essere l’obiettivo del secondo giro, anche perché dopotutto è pur sempre un concorso ed è interessante valutare meglio le forze in campo: ho letto che ci sono requisiti etici piuttosto stringenti quindi nessuna foto è, in senso esatto, falsa, cioè costruita apposta o fintamente reale o platealmente propagandistica. D’altra parte i finalisti, pur essendo i più bravi di un campo sterminato di partecipanti, non sono evidentemente tutti uguali, e quindi lo sguardo del visitatore dovrebbe sforzarsi di premiare i più bravi e i più onesti, al di là della magnificenza dei colori o di quanto colpiscano i soggetti rappresentati.

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