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I bambini della povertà

Durante la vacanza in Val Venosta ci siamo trovati, un pomeriggio, al museo etnografico di Sluderno, il Vintschger Museum. Come altri musei dedicati alla cultura retica che mi è capitato di visitare fra Trentino e Alto Adige non è grande e non ha magari dei pezzi straordinari, ma è molto curato, è ben messo e fa un uso intelligente dei supporti multimediali. E poi per gente come noi che crede magari di sapere tutto sui Celti e non ha mai sentito parlare dei Reti una visita è sempre utile.

Eravamo lì perché il museo ospita temporaneamente una serie di testimonianze dirette del periodo critico nel quale i sudtirolesi dovettero optare per la cittadinanza tedesca o per quella italiana, ma certamente la sezione che ci ha colpito di più e preso totalmente di sorpresa è stata quella dedicata agli Schwabenkinder, i “bambini di Svevia”.

Sembra un po’ una cosa alla Dickens, no? Infatti… (E. Klein [Public domain])

In pratica la storia è questa: la Val Venosta è stata, come altre aree alpine che noi tradizionalmente associamo all’idea di copiose polente, abbondanti cioccolate con la panna e la mucca della Milka, un’area molto povera, un po’ per la difficoltà dei luoghi e un po’ per questioni che hanno a che fare con il sistema con cui erano gestite le proprietà agricole. Questo ha generato due fenomeni: da una parte quello dei karnerr, la “gente dei carri” che non avendo terra da coltivare si riduceva al piccolo commercio ambulante (sui karnerr vi segnalo un interessante articolo, e la chiudo qui); dall’altra appunto quello dei bambini svevi, i figli di famiglie povere della valle che da marzo a novembre, dai cinque ai quattordici anni, venivano mandati a servizio a centinaia di chilometri di distanza, in Svevia, come pastorelli, contadini o, per le bambine, a fare i lavori di casa.

Immaginiamoci con la neve

Nella memoria dei contemporanei è rimasto il ricordo del viaggio pericoloso e disagevole attraverso i passi alpini, accompagnati di solito da un genitore o dal parroco, e il vero e proprio mercato di Regensburg, dove si concentravano i bambini e dove accorrevano i contadini per soppesare la qualità della forza lavoro e assicurarsi le occasioni migliori.

La narrazione della mostra (il progetto sottostante è poderoso e qui c’è un sacco di roba, purtroppo in tedesco) è ambivalente: andare in Svevia, per i più fortunati, voleva dire lavorare duro come a casa ma mangiare a sazietà e tornare con i soldi indispensabili per la famiglia e un nuovo cambio d’abiti che comprendeva, di solito, dei desideratissimi stivaletti. Per i più sfortunati, però, poteva comportare abusi di ogni genere, sfruttamento e, in caso di incidenti sul lavoro, menomazione e morte.

Dal sito della mostra

Era una cosa di cui non sapevamo assolutamente niente e ci ha molto colpito. Per gli amici tedeschi ospiti del nostro stesso albergo, invece, era un fatto ben noto che si collegava a campanilismi di cui non sappiamo niente: gli svevi, ci hanno detto, hanno una nomea sul genere di quella degli scozzesi o dei genovesi. Andare a servizio dagli svevi non era proprio una passeggiata, insomma.

Ci hanno perfino raccontato questa storiella, di quando uno di loro studiava all’università e aveva una collega sveva. Un giorno lei li invita per un compleanno, che in Germania comprenderebbe un rinfresco pomeridiano con caffè, varie torte e cose del genere. C’erano tre ospiti e due, dico due, fette di torta. E lei spiega: nella sua esperienza la torta non piace mai a tutti tutti, quindi perché esagerare? Poi avanza, ed è brutto. Naturalmente quelli, in tre con due fette, hanno tutti evitato di mangiare, e lei naturalmente ha pensato di avere avuto ragione: vedi che avanza tutta la torta?

Ho raccontato la storiella perché sul momento, davvero, la storia dei bambini svevi mi ha fatto molta impressione e quindi preferisco alleggerire il clima.

Poi mi sono ricordato che, in questa stagione, ovunque andassimo c’era gente che faceva fieno. Vuol dire che stavano là coi forconi a rivoltare il fieno già falciato per farlo asciugare, o coi rastrelli per radunarlo per poi fare le balle. Erano tutti gruppi familiari, ed era pieno di bambini: magari qualcuno più che lavorare di rastrello ci giocavano, però erano comunque in campo e alcuni erano anche molto piccoli. Alla festa patronale gli adulti cucinavano, ma ai tavoli servivano bambine e ragazzine (non parliamo di chi vedi lavorare nei dei masi remoti). In un caso e nell’altro, nessuno ha battuto ciglio, e certamente nessuno dei presenti pensava che ci fosse sfruttamento: la vita familiare ha incombenze e tutti devono fare la loro parte, diciamo.

E non è che non c’erano tavoli da servire

E mi sono ricordato anche delle ragazze che dai paesi sardi dell’interno venivano a servizio nelle famiglie cittadine: avevano dodici, quattordici, sedici anni. C’è un bel libro di Giacomo Mameli che racconta di quelle che andavano fino a Roma, per esempio. Nel commercio equo la presenza dei bambini nei campi dei produttori è un tema dibattuto, e non è sempre facile distinguere lo sfruttamento (da combattere) dall’economia di villaggio (da trattare con rispetto, anche se senza acquiescenze).

Rimango combattuto. Da una parte la civiltà contadina ha le sue regole e i suoi ritmi, dall’altra la storia dei bambini svevi è una storia tipica della civiltà della sussistenza, quando il puro sforzo della sopravvivenza ha la precedenza su tutto. Dobbiamo ringraziare che non siamo più in quel tipo di società, come ripete sempre padre Steiner di San Domenico. Del resto il fenomeno si è estinto non perché abbiano avuto il sopravvento le preoccupazioni etiche ma, più banalmente, perché a un certo punto interferiva con l’obbligo scolastico, e gli Stati, appena appena era possibile elevarsi dall’economia di sussistenza, cercavano di investire per procurarsi forza lavoro di qualità migliore.

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