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Colpa e vergogna

A world on fire (Amanda Foreman, Penguin 2011)

Il mio progetto estivo per il mare era quello di leggere A world on fire di Amanda Foreman, un saggio storico sul coinvolgimento degli inglesi (e, in minor misura, di altri europei) nella Guerra Civile americana.

In realtà sono andato al mare pochissimo, il libro è lungo più di ottocento pagine (con in aggiunta altre duecento di note fittissime, elenchi di nomi, genealogie e quattro belle sezioni di tavole fotografiche) e insomma sono abbastanza in ritardo: confido nel mese di settembre, ma non ci credo tanto.

Comunque, il libro è bellissimo. In realtà è un libro si storia delle relazioni internazionali, di storia diplomatica, nel quale si segue lo stato altalenante dei rapporti fra i due paesi (tre, contando i Confederati). Si tratta di un aspetto storico che francamente non conoscevo bene – del resto con la storia contemporanea ho un rapporto ambivalente, perché mi fa tristezza – e quindi scopro cose che mi erano del tutto ignote, come il fatto che nel tardo 1861 Stati Uniti e Regno Unito rischiarono seriamente la guerra.

Ma il libro non è solo un libro di relazioni internazionali. È anche un libro di storia delle reazioni dell’opinione pubblica alla guerra. Di inviati di guerra. Di giornali attesi ansiosamente da una parte e dall’altra dell’Atlantico per sapere non tanto l’andamento delle operazioni militari, ma le opinioni degli altri. Di relazioni personali, di scambi di lettere che raccontavano verità alternative a quelle ufficiali. Di reazioni isteriche, nazionalistiche, sentimentali, suscettibilissime, ai resoconti e alle opinioni espresse. Ed è anche un libro di storia materiale, della vita difficile di famiglie divise dalla guerra, di soldati, infermiere, di volontari e gentiluomini di fortuna, di inglesi che troviamo in posti e posizioni improbabili in territorio americano e di americani in posti e posizioni altrettanto improbabili in Europa.

È un libro affollato di personaggi, tutti interessantissimi, di storie rocambolesche, di piccinerie e tradimenti e di veri atti di eroismo, anche silenzioso.

E con questo per il momento chiudiamo col libro. Ve ne riparlerò quando l’avrò finito, anche perché il fatto che il libro sia bellissimo non vuol dire che il metodo storiografico sia sempre a prova di bomba, o almeno non mi pare. Quello che volevo raccontare adesso, invece, è di come en passant la Foreman abbia scalfito una mia certezza.

Colpa e vergogna, appunto

Avevo sempre creduto, infatti, che fosse vera la teoria, letta credo nell’introduzione a qualche libro sugli stratagemmi e che vedo appartenere in origine al libro La spada e il crisantemo dell’antropologa Ruth Benedict, secondo la quale le società occidentali sono società della colpa (“guilt societies”) e quelle orientali società della vergogna (“shame societies”). L’idea sarebbe che in una società della colpa i comportamenti scorretti sono repressi facendo interiorizzare l’idea che questo merita una punizione. Chi ha fatto qualcosa di sbagliato si sente quindi in colpa (a questa forma sociale è quindi legata l’elaborazione di una idea di coscienza) e sa che prima o poi il suo comportamento comporterà il giusto castigo: se non qui, nell’altra vita.

È una idea che apparentemente si adatta bene a paesi cristiani, nel quale l’inferno vale come punizione definitiva, e nei quali il concetto di peccato fa da base alla costruzione del senso di colpa.

Le società orientali, cinese e giapponese, invece, sarebbero più legate a meccanismi di controllo sociale basati sulla pressione di conformità, sul giudizio dei pari, sulla capacità di fare non tanto ciò che è bene ma ciò che permette di raggiungere correttamente i propri fini. Nelle società orientali non ci sarebbe elaborazione dell’idea di “coscienza”, ma invece sarebbe loro tipica l’idea di onore, appunto come misura del giudizio e della stima del gruppo sociale nei propri confronti.

È una teoria che in parte spiega effettivamente alcuni meccanismi del pensiero strategico cinese ma che, adesso che ve la descrivo, vedo che fa acqua da tutte le parti. Fra l’altro vedo che viene giustificata con l’etica confuciana, però giusto il pensiero strategico (compreso Mao) è critico verso l’etica confuciana, quindi c’è per forza qualcosa che non torna. Però per un sacco di tempo l’ho tenuta riposta in un angolino della mente senza metterla in discussione; alcune volte, che Dio mi perdoni, posso perfino averla ripetuta in giro.

Poi leggo nel libro della Foreman degli immigrati inglesi che vivevano negli Stati Uniti e che improvvisamente allo scoppio della guerra sono chiamati – o costretti – a schierarsi. Molti sono arruolati a forza, ma molti altri invece si presentano come volontari.

Fra loro trovo questo caso:

In tutta la Confederazione una intensa pressione veniva esercitata nei confronti dei 233 000 residenti stranieri perché dimostrassero la loro lealtà verso il Sud. Per William Watson, uno scozzese che lavorava come meccanico a Baton Rouge, evitare di seguire i suoi amici nei Pelican Rifles del Terzo Reggimento di Fanteria della Louisiana sarebbe stato impensabile. «Non avrei mai preso le armi per far proseguire lo schiavismo o sostenerlo con la forza», scrisse nelle sue memorie. Ma gli amici di Watson gli dissero che avrebbe combattuto per l’indipendenza, una causa così meritevole che non poteva rimanere da parte a guardare «senza macchiare» il proprio onore.

A world on fire, pagina 109

Toh, guarda chi si vede, l’onore. Henry Morton Stanley, quello che poi avrebbe trovato Livingstone e che era un altro immigrato, si arruolò coi confederati perché ricevette dai vicini un pacchetto con un abito da servetta nera, l’equivalente dell’accusa di vigliaccheria che in Inghilterra si esprime con le piume bianche.

Film interessante, tra l’altro

Non dirò che i personaggi del libro siano tutti ossessionati dall’onore, ma certo questo fa parte continua della loro vita. La guerra fra Stati Uniti e Inghilterra può scoppiare per un punto di diritto internazionale ma soprattutto perché è stato offeso l’onore della bandiera di una nave militare. Quando l’inviato di guerra William Howard Russell pubblica il suo resoconto della disastrosa sconfitta unionista nella prima battaglia di Bull Run si attira l’odio dei nordisti, perché la sua descrizione della rotta macchia il loro onore, e dei sudisti, perché attribuendo la vittoria alla disorganizzazione dei loro avversari non rende sufficiente omaggio al loro coraggio e quindi macchia il loro, di onore.

È così continuamente. E mi sono detto: «Ohibò, come ho fatto a pensare che una società come quella di taglio europeo, coi suoi duelli per onore, con un delitto d’onore appositamente definito nel codice penale, con tutta un’enfasi sull’onore che attraversa la nostra letteratura», più o meno da Malory in poi, direi, «fosse una società che potesse rientrare nello schema della Benedict?».

Non funziona, proprio non funziona.

L’uomo forte, per esempio

È stata una scoperta interessante, più che altro perché oggi l’idea di onore è più o meno un vestigio del passato e lo è probabilmente da molti anni (azzarderei, dalla fine della I Guerra Mondiale). L’errore di prospettiva porta a pensare che le cose lontane siano meno importanti, quando non addirittura inesistenti.

Oggi nessuno apparentemente si pone il problema della tutela del proprio onore. Della vergogna.

O forse no. Per esempio, la retorica dell’uomo forte, del leader, ha bisogno dell’onore, sia pure espresso in forme post-moderne. Non essere abituati a riconoscerlo ci fa perdere comprensione di almeno un pezzetto dei meccanismi politici attuali. Per esempio, il problema non è perdere le elezioni, ma essere umiliati nella sconfitta (vedi alla voce Fassino). Facciamo tutti ironia sugli italiani che corrono in aiuto del vincitore, ma essere a fianco dell’eroe vittorioso è un onore: magari anche questo spiega certi movimenti nei sondaggi.

Il pensiero strategico

Ho messo in conto di leggere, prima o poi, Il crisantemo e la spada della Benedict. Magari quel che ne ho saputo sinora è un sunto malriuscito e il libro, invece, merita (ho i miei dubbi, ora, ma meglio leggerlo e togliersi i dubbi che mantenerli e prima o poi fare la figura del cialtrone: anche questo è materia di onore, se ci pensate). Nell’attesa della lettura, comunque, riflettevo che una forma debole e più accettabile delle idee del libro possa essere ricompresa nel dissidio, inevitabile, fra pensiero strategico e pensiero morale, un contrasto che anche l’occidente ha conosciuto fin da Machiavelli, per esempio. Diverse società e culture possono elaborare questa tensione in modo diverso e giungere a soluzioni creativamente diverse: per il momento mi attesterò su questa idea, e magari quando la approfondisco anche su questo ci tornerò sopra da queste parti.

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