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Teatro al cinema

Ho visto la settimana scorsa, praticamente per caso, Il flauto magico di Piazza Vittorio, riproposizione del quasi omonimo spettacolo teatrale (e disco), tratto ovviamente dal Flauto magico di Mozart.

Ero con Maria Bonaria e il Subcomandante Marcos e ci siamo tutti e tre divertiti molto: consiglio la visione senza riserve (tra l’altro, secondo me, ci si può andare tranquillamente con figli).

È una bella festa del teatro e della musica, e tutto sommato la recensione potrebbe fermarsi qui. Nel senso, davvero è difficile aggiungere qualcosa di sostanziale per farne la farne recensione o, perlomeno, concentrarmi sugli stessi argomenti che, dando una rapida occhiata, ho visto sottolineare sulla rete.

C’è un cast multiculturale. Ammazza. L’anno scorso ho visto a teatro Battlefield, un classico dell’epica (indiana), il Mahabharata, nell’adattamento di Peter Brooks (inglese) e Jean-Claude Carrière (francese), recitato da un’attrice belga di origine rwandese, un afroamericano che vive in Italia, un rwandese/belga che vive a Londra e infine uno scozzese purosangue. E le musiche erano di un giapponese, quindi di cosa stiamo parlando? Il teatro ha superato da un pezzo quello stadio per il quale ci interroghiamo se la sirenetta può essere nera (il teatro si è anche già liberato anche di preconcetti come l’appropriazione culturale – ed è una fortuna considerato che non ci sono più in circolazione molti indiani del IV secolo a.C. per recitare il Mahabharata, e anche gli scozzesi potrebbero risentirsi per il Macbettu).

I costumi e le scenografie, coloratissimi e inventivi, erano fantastici, ma l’opera è spesso così. La musica di Mozart, liberamente reinterpretata, era piegata intelligentemente alle esigenze di una messa in scena pop e postmoderna. anche questo non è proprio inaudito, ecco.

Vorrei essere chiaro: non sto facendo quello blasé che ha già visto tutto: vado a teatro tre volte l’anno e tutto per me è sempre una sorpresa. Quello che voglio dire è che fermarsi a questo – ai colori, della pelle degli interpreti, delle scenografie e dei costumi, della musica – mi sembra troppo poco, e in fondo pure riduttivo rispetto alla bravura degli artisti coinvolti, che meritano di essere giudicati per la qualità delle loro prestazioni (generalmente buone, e ottimamente diretti) e non perché sono cubani, senegalesi, marocchini o italiani.

In fondo, si dovrebbe giudicare il teatro non perché reinterpreta e reinventa – cosa che fa più meno dai tempi del bisnonno di Plauto – ma perché l’adattamento è fatto bene. Io ho detto dall’inizio che mi sono molto divertito, quindi forse potevo chiuderla lì senza tutto il resto del discorso, ma era un riflessione che mi ha accompagnato a casa – tra l’altro, distraendomi a sufficienza che mi sono dimenticato la macchina davanti al cinema.

Ah, già, ecco un’altra cosa che mi sono dimenticato: non è teatro, è cinema! E quindi c’è dentro questo Il flauto magico di piazza Vittorio un’ulteriore dimensione di adattamento: il cinema che mette in scena la messa in scena pop di una messa in scena settecentesca.

E qui entra in campo tutta un’altra serie di giudizi: lo spettacolo teatrale potrebbe, per ipotesi, essere un buon adattamento che il cinema non riesce a rendere pienamente.

Qualche volta, per la verità, Cabiddu sembra un po’ imbarazzato dalla ristrettezza degli spazi di manovra a sua disposizione (nel dibattito dopo la prima ha accennato anche a una pochezza di certe risorse disponibili). Qualche volta la realtà cinematografica sembra distillarsi a una realtà semitelevisiva di quando si trasmette il teatro o l’opera in diretta.

Solo in qualche momento, in realtà. Perché il taglio scelto da Cabiddu e Mario Tronco, quello che potremmo chiamare dell’affettuoso omaggio, funziona.

Affettuoso omaggio. Prima di tutto, la regia e l’adattamento cinematografico riprendono i temi portanti dello spettacolo teatrale: un omaggio alla magia del teatro, alla fantasia, alla sua capacità di trasportare l’immaginazione in luoghi fantastici con l’aiuto, magari, solo di qualche straccio colorato e di fondali dipinti – poco importa se presi in prestito da un videogame.

Un omaggio a Mozart, ovviamente. ANche questo doveva essere già nell’edizione originale.

Ma poi Cabiddu e Tronco hanno un tocco fortunatissimo aggiungendo un omaggio affettuoso alla stessa Orchestra di piazza Vittorio e agli spazi che abita, cioè il quartiere intorno. È allora che la multiculturalità, le etnie diverse, le tradizioni musicali lontane tra loro e ricomposte armonicamente ridicentano un punto di forza e una caratteristiche che, poniamo, Battlefield o Macbettu o laCarmen ambientata nella Guerra Civile Spagnola non hanno: perché non sono più solo scelte artistiche, ma rimandano alla concretezza dell’esperienza dell’Orchestra, le sue relazioni, i corpi fisici che la compongono, con le loro storie personali e le loro relazioni e gli spazi che abitano; in questo senso, la scelta di trasformare il giardino di piazza Vittorio e gli spazi circostanti nel grande palcoscenico in cui è ambientato tutto il film, trasfigurandolo in luogo fiabesco notturno mi è sembrata la scelta più fortunata: lo spazio diventa protagonista assoluto e ricorda, plasticamente, la storia stessa e l’identità dell’Orchestra.

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