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Intervista con Piero Cioni

Mi ha molto colpito, ieri, la notizia della morte di Piero Cioni, game designer e figura storica del movimento ludico italiano.

Sono un po’ in imbarazzo a raccontarlo perché non ho mai conosciuto Piero direttamente e quindi temo di non avere titolo per parlare di lui, certamente non lo stesso di altri che con lui hanno condiviso convention su convention e parti non banali della propria attività lavorativa

Il mio unico contatto con Piero è stato quando ho curato il dossier sui videogame per Mosaico di pace: discutendone con Beniamino Sidoti, che nel dossier avrebbe parlato di Papers, please, mi fece notare che sarebbe stato opportuno inserire una voce dall’interno dell’industria, e mi fece il nome di Piero.

Ho visto che ieri tutti, su Facebook e altrove, hanno sottolineato che la cortesia, disponibilità e gentilezza di Piero, oltre che le competenze tecnico-ludiche, occupano un posto non secondario nello sviluppo del movimento in Italia. Anche io l’ho notato, seppure solo nelle nostre chat e scambi di mail. Posso testimoniare della disponibilità con cui accolse la richiesta inopinata di collaborare a un progetto anche un po’ strano; fu anche l’unico, quando gli mandai il dossier terminato, a formulare delle critiche, bonarie e acute.

Ci siamo tenuti in contatto alla lontana su Facebook, successivamente; è stato abbastanza doloroso seguire la malattia senza abbastanza confidenza per offrire conforto ma con abbastanza conoscenza da sentirsi toccati dal dolore – e dal coraggio.

Mi sembra un piccolo omaggio appropriato ripubblicare l’originale dell’intervista per il dossier. Rileggendola mi sembra che emerga il Piero che vedo raccontare dalle parole degli amici più veri di me e credo che a diversi farà piacere leggerla, anche se la risposta all’ultima domanda non può che far crescere il rammarico.

Rispetto alla versione pubblicata sulla rivista questa è più lunga e non ha i tagli successivamente applicati per motivi di spazio redazionale.

Piero Cioni, bolognese, del 1963 (una buona annata…). Ho fatto il liceo scientifico e Ingegnera Elettronica. Ho studiato moltissime altre materie, di cui in modo estremamente serio Teologia Comparata, Storia Antica e Astrofisica. Ho lavorato come programmatore per alcune software house in orbita prima IBM, poi Apple. In seguito sono passato all’Università di Bologna, dove ho ricoperto diversi incarichi (e dove ho scoperto la mia passione per l’insegnamento). Nel frattempo la mia carriera di game designer correva parallela e ho collaborato con parecchie aziende. Infine ho avuto la fortuna/possibilità di far del game designing il mio lavoro ufficiale e sono emigrato in Germania per lavorare per la Ubisoft, uno dei giganti dei videogiochi.

Buongiorno Piero: per cominciare potresti spiegarci esattamente che lavoro fai?

Io faccio il game designer, ovvero partecipo assieme ad altri come me alla creazione e/o mantenimento di videogiochi.Sono considerato un grande esperto di meccaniche, dinamiche e bilanciamento. Spesso creo giochi nuovi e li presento per una possibile pubblicazione futura

E se ti chiedessi di raccontarmi una giornata tipo? Per esempio ieri?

Una delle ragioni per cui lavorare nel campo dei videogiochi è bellissimo è che non esistono le giornate tipo. Ne succedono di tutti i colori… In generale si fanno riunioni in cui si discutono gli incarichi e poi, in singolo o in team, si affrontano questi task e li si completa. Io lavoro in Germania, dove tutto è super-organizzato, in altri paesi la situazione è più fluida.

Come sei arrivato a questo lavoro? Eri un ragazzino timido e occhialuto che passava tutto il suo tempo al computer e non aveva amici?

Ero un ragazzino attaccato ai computer, si, ma ho sempre avuto molti, molti, molti amici. Infatti ero spesso (per non dire sempre) al centro dell’organizzazione del divertimento. Da masterizzare gdr ad andare fuori a cena, da suonare la chitarra a ballare fino alle 4 del mattino, sono sempre stato un po’ il motore del nostro gruppo. Una specie di clown e cantastorie. Questo SICURAMENTE ha plasmato il mio carattere di generatore di divertimento che alla fine è diventato il mio lavoro.

Il tuo progetto o risultato di lavoro del quale sei più orgoglioso?

Insegno Game Designing in alcune Università in giro per l’Europa. Ai miei studenti dico sempre: «Esiste solo UNA risposta valida alla domanda: qual è il tuo miglior gioco. Il prossimo. Vale anche per me. Il game designing è un viaggio senza destinazione. Non si finisce mai di imparare e diventare migliori.

Tu lavori per una grande casa produttrice: puoi darci un’idea della complessità produttiva necessaria per produrre giochi come quelli che fate? Anche, cosa vuol dire lavorare in un’azienda creativa con una forte dimensione internazionale e, immagino, colleghi di nazionalità e impostazioni culturali molti differenti?

Lavorare con colleghi di varie nazionalità e culture è uno degli aspetti migliori del lavorare per una grande azienda internazionale. Io ADORO confrontarmi con persone di culture diverse. Non hai idea di quanto ti faccia comprendere del mondo e di te stesso. Di quanto sia formativo. Lavorare per una azienda gigante è molto impegnativo, una esperienza da provare sicuramente dopo aver maturato esperienza in aziende più piccole. Qui devi essere maledettamente bravo nel tuo lavoro, l’ambiente è molto professionale e focalizzato sul risultato finale. Una sorpresa per quasi tutti quelli che si avvicinano a queste produzioni è il numero di persone coinvolte. Nel gioco a cui lavoro attualmente siamo circa 400 persone divise fra Montreal, Barcellona, Düsseldorf e San Pietroburgo. Gli investimenti economici inoltre sono ENORMI e senti sulle spalle il peso di questa montagna di denaro. Devi essere una persona decisamente responsabile. Alcuni crollano sotto una pressione del genere.

Quanto entra nel vostro lavoro il rapporto con altri media? Per esempio il fatto che di un vostro gioco si possa concepire contemporaneamente o successivamente un film, un fumetto, dei romanzi, un merchandising: che tipo di mentalità di lavoro è richiesta?

In Ubisoft (ma non in tutte le ditte è così) cerchiamo di costruire sempre un universo attorno al gioco. Questo può portare o meno allo sconfinamento in altri settori come i film o i fumetti. Diciamo che non partiamo con l’idea di fare sempre un film, ma la possibilità viene tenuta presente fin dall’inizio.

Spesso questa dimensione produttiva piuttosto complessa è contrapposta, magari in maniera mitologica, al mondo indie. Tu noti più la distanza fra i due mondi o le linee di continuità?

Non potrebbero essere più diversi. Io ho altalenato fra i due settori e ti garantisco che sono molto distanti come approccio al lavoro e al prodotto finale. Io non preferisco uno all’altro ma conosco indie che non potrebbero MAI lavorare in una grossa azienda e viceversa. Io definisco un’azienda indie come strutturale, cioè si tratta di una azienda fatta di persone e le procedure vengono create attorno alle persone. Mentre una grande azienda internazionale è di tipo sistemico ovvero è una ditta composta di procedure a cui le persone devono adattarsi. Ci sono comunque diverse sfumature fra i due estremi e ci sono anche molte eccezioni.

In un quadro del genere, per la tua esperienza non solo diretta, che spazio c’è per la dimensione autoriale nel lavoro su giochi che sono ormai dei marchi consolidati, con una loro identità ben stabilita e con un pubblico che segue in maniera continuativa e ha delle aspettative molto forti?

Questo è di solito un grande cruccio per i creativi come me. Naturalmente in un marchio già consolidato non c’è molto spazio creativo. Non è tipico solamente dei videogiochi. Quando un prodotto è amato dal pubblico ci sono delle aspettative che non vanno tradite. Facciamo un esempio: tu faresti il prossimo film di Batman come un musical spensierato? Guarda per esempio che accoglienza ha avuto il quarto film di Star Wars (Episodio Uno). Si deve introdurre qualcosa di nuovo ma si ha molta paura che il pubblico non apprezzi. È molto, molto, molto difficile. Nei videogiochi si cerca ultimamente di coinvolgere i fan nello sviluppo, facendo loro provare versioni iniziali e vedendo le reazioni.

Ti è mai capitato di dover lavorare su giochi con temi che ti mettevano a disagio? Non parlo di fare giochi coi quali non eri d’accordo, ma di dover trattare temi che magari ti toccavano personalmente.

Per ora no.

E invece ci sono temi o periodi storici o ambientazioni nei quali sei stato felice di immergerti?

Oh, si. Sono un GRANDISSIMO appassionato di fantasy e di fantascienza e, essendo nato con i giochi Avalon Hill, sono appassionato di giochi sulla WW2. Ho avuto la fortuna di lavorare su parecchi giochi di queste ambientazioni. Lavorare su Might&Magic dopo averlo giocato così a lungo, per esempio, è stato entusiasmante.

Un tema che inevitabilmente viene evocato a proposito dei videogame è quello della violenza, e in generale della presenza di contenuti diseducativi. Tu come la pensi? E come giudichi il mercato in generale su questi temi?

Io sono indeciso. Da un lato giochi violenti sono diseducativi, dall’altro costituiscono una efficace valvola di sfogo per frustrazione e rabbia che riduce la violenza nel mondo reale. Io non so quale di questi due fattori opposti abbia un peso maggiore.

Secondo te, qual è l’errore più comune che fa chi giudica il mondo dei videogame dall’esterno? Che pregiudizi noti, o che tipo di modo di parlarne ti da più fastidio?

In generale i commenti esterni spesso ignorano cosa vuol dire fare un videogioco. Alcuni critici dicono: basta aggiungere questo o rimuovere quello. Possono dare fastidio perché tutte queste varianti sono state tentate e valutate da esperti. Il gioco rilasciato non è costituito «dalla prima idea che ci è venuta in mente». Ogni possibile permutazione è probabilmente stata provata e ritenuta peggiore. Una cosa che NON da fastidio, ma che risulta sempre molto difficile da trattare, è che i personaggi di un gioco, una volta rilasciato, non sono più tuoi, ma diventano proprietà dei giocatori. Molti giocatori impersonano i personaggi con tale intensità da criticare la scelte fatte. Ricordi il film Misery non deve morire?

Pawel Miechowski di This War of Mine sostiene, in un’altra intervista in questo stesso numero, che i videogame sono ormai un mezzo di comunicazione maturo in grado di affrontare temi di qualunque genere, anche adulti, e di avere un impatto sociale importante. Sei d’accordo?

Completamente d’accordo. Dalle mie esperienze di game designer e di insegnante, sostengo da sempre che i giochi (non solo i videogiochi) sono uno dei migliori strumenti educativi e anche uno dei migliori canali di discussione di temi difficili. D’accordo al 100%.

Dal tuo punto d’osservazione quali sono i progetti recenti o le linee di evoluzione più interessanti in questo senso? Sono temi sui quali ti sei misurato o sui quali ti piacerebbe misurarti?

Io vedo (e la cosa mi fa felice) un lento abbandonare del modo tipicamente americano di fare videogiochi. Si dovrebbe parlare di questo argomento a lungo. Il successo di alcuni giochi recenti, pensa a Portal o a Dark Soul, hanno aperto la possibilità di uscire da certi schemi narrativi statunitensi che erano ormai fuori dall’immaginario europeo e giapponese/coreano. Ora POSSIAMO raccontare storie diverse e proporre giochi diversi. Apprezzo moltissimo questo e speravo che accadesse prima.

Se ti chiedessi un gioco che ha avuto un vero impatto culturale o sociale, quale mi indicheresti?

Nel passato Dungeons&Dragons. Più recentemente Magic the Gathering. Non c’è niente di nemmeno paragonabile. Hanno avuto il merito di cambiare la percezione del mondo del gioco. I giocatori non sono più nerd o geek pseudo-asociali o eterni bambini. I giochi e i giocatori sono molto più accettati oggi. Come impatto culturale o sociale non ci sono molti esempi calzanti. Ricordo il fallimento di Fable con la sua totale libertà di azione che generava invariabilmente comportamenti malvagi dei giocatori. Come game designer sono disgustato dal vecchio Monopoly. Un gioco estremamente diseducativo.

E il gioco che ti sarebbe piaciuto fare tu?

Ah! Bella domanda!Mi sarebbe piaciuto lavorare ancora su Might&Magic. Mi sarebbe piaciuto fare EVE online. Mi sarebbe piaciuto avere la direzione creativa del prossimo World of Warcraft

Che sia sull’impegno sociale o meno, qual è un risultato davvero fantastico ottenuto da un videogame (o dai videogame in generale) negli ultimi tempi? E una cosa fantastica che succederà nei prossimi tempi?

Io credo che uno dei successi dei videogiochi risieda nell’essere una sorta di film interattivi. Quando vai al cinema spesso di stupisci della stupidità dei protagonisti e pensi che nella stessa situazione tu avresti preso una decisione diversa. Nei videogiochi è proprio quello che accade. Il risultato è che negli ultimi 20-30 anni il pubblico è molto, molto più maturo (e difficile da accontentare…). In passato non c’era il livello di critica personale che c’è oggi. Questo è impegnativo per noi del settore, ma è un importantissimo passo avanti. Vedo per esempio che i videogiochi aiutano nell’evitare i condizionamenti psicologici o la propaganda. La gente è più abituata a pensare con la propria testa. Nel futuro penso che i videogiochi diverranno sempre di più dei film interattivi. I progressi tecnologici nelle performance dei PC, ci permetteranno di offrire esperienze sempre più realistiche.

Per finire, come ti immagini il tuo lavoro fra dieci anni?

Fra dieci anni sarò in pensione! Probabilmente creerò giochi da tavolo e scriverò libri. Altrettanto probabilmente farò musica elettronica per soundtrack. Cose creative ma rilassate e rilassanti.

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