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Rozzamente perfetto, perfettamente rozzo

Questo articolo parla di altro, ma prima richiede che io vi racconti del mio rapporto con l’inglese.

Il quale rapporto più o meno è questo: ho studiato la lingua alle scuole medie e, avendo fatto il Classico, ai primi due anni del liceo. Il professore delle medie era fantastico, l’insegnante delle superiori una strega (categoria, peraltro, molto comune in quel luogo a quell’epoca). Il fatto che la strega scuotesse la testa con aria di sufficienza non mi ha impedito di andare per due anni in una scuola estiva in Inghilterra (in cui vissi avventure che saranno raccontate un’altra volta), ma probabilmente ha qualcosa a che fare col perché il mio rendimento scolastico non ne abbia tratto alcun giovamento.

Nel frattempo, però, un mio amico si era comprato un boardgame della Avalon Hill, che si chiamava Alesia, e che aveva il regolamento solo in inglese. E io con santa pazienza l’ho tradotto (inserendo anche una miriade di house rules, ma anche questa è un’altra storia e sarà raccontata un’altra volta).

Lungo tutta l’adolescenza ho continuato a giocare a giochi da tavolo vari importati dall’America: il fatto che fossero in inglese ha voluto dire che ho dovuto imparare a destreggiarmi per forza. Poi l’estate del mio diciottesimo compleanno mia madre mi ha portato in vacanza sul lago di Como. Pioveva senza interruzione, andavamo a visitare ville con giardino delle quali non mi importava niente e io mi struggevo d’amore per una ragazza lontana, con esiti catastrofici (anche questa è un’altra storia, ma non sarà raccontata un’altra volta). L’unico aspetto positivo fu che mi portai dietro il libro di scuola con le avventure di Sherlock Holmes in lingua originale e, lentamente, faticosamente, imparai a leggere un’opera narrativa.

Da allora ho continuato, tanto più da quando ho iniziato coi giochi di ruolo e con la letteratura fantasy. A un certo punto ho deciso che per quanto possibile i libri scritti in inglese li avrei letti direttamente in lingua originale (in realtà vale anche per il francese e lo spagnolo, ma li la lettura mi è faticosa come quando compitavo le cronache del dottor Watson, e spesso trasgredisco la regola),

Tutto questo per dire che leggo con facilità in inglese. Al contrario, però, non parlo mai l’inglese: il mio è un uso della lingua totalmente fra me e me. Peggio ancora, siccome non leggo mai a voce alta non ho più alcun orecchio per il parlato, e la mia pronuncia è pessima. Ancora peggio, ne sono assolutamente cosciente: se me ne dimenticassi, le facce inorridite dei miei interlocutori me lo ricorderebbe immediatamente. E quindi sono ancora più impacciato e esitante, e quindi facci ancora più errori.

E allora da poco ho deciso di fare ricorso al rimedio che tutti consigliano in questi casi: guardo film in lingua originale. Una mano santa, si dice.

Boh.

Probabilmente se uno non mette i sottotitoli, credo. Infatti adesso che sto facendo un corso di inglese serio il professore assolutamente proibisce di leggere e ascoltare insieme. Se leggi, non ascolti, dice.

E allora ho fatto il salto: ho deciso di scegliermi una serie su Netflix e di guardarla in lingua originale senza sottotitoli.

La scelta è caduta su una serie dell’universo di Star Trek, quella che racconta i primi viaggi spaziali degli umani, cioè Enterprise.

Dal punto di vista linguistico, ho capito subito che era una scelta sbagliata: se uno vuole acquisire l’orecchio e ha difficoltà di comprensione forse non va bene una serie nella quale i dialoghi comuni sono più o meno: Capitano, ho un incrociatore trifasico sulla mappa. Dalla scia del motore protonebuleo si direbbe un Kandrak della cometosfera Angravariana.

Ecco.

In compenso, però, seguo la serie con una specie di torbida fascinazione, più meno come quando leggi l’elenco degli ingredienti di una piadina surgelata prosciutto e cheddar prodotta in Bulgaria.

Non appartengo al fandom di Star Trek, quindi non so granché dell’accoglienza ricevuta dalla serie, però una serie di domande saltano agli occhi. Lo Star Trek originale – che risale agli anni ’60, però – era un inno al sistema di vita e ai valori americani: i Klingon erano i cattivi sovietici e la Federazione portava pace e civiltà ovunque. Quarant’anni dopo e con un universo molto complesso costruito nel frattempo, ti aspetti un tipo di narrazione un po’ più raffinata, e invece è ancora tutto così. Si vede nella gestione della storia: il capitano Archer ci ricorderà almeno una volta a puntata che noi amer… pardon, umani siamo fatti così e cosà, non abbandoniamo la nostra gente, manteniamo la parola, non permettiamo che altri siano oppressi, non ci arrendiamo facilmente, siamo pieni di risorse e di solito non puliamo il water, perché nel water mettiamo il disinfettante Angravariano. Ma si vede, in maniera ancora più sorprendente, nella cura dei particolari di sfondo: quando una nuova nave stellare viene varata apprendiamo che si chiama Shenandoah, come una battaglia della Guerra Civile: caspita, questa Terra del XXII secolo, dove ancora l’ossatura dell’orgoglio mondiale è costruito sulla storia americana!

Oppure: c’è in una puntata una scena nella quale l’equipaggio risponde alle domande di una classe scolastica, laggiù nelle pianure del Wyoming. Apparentemente gli sceneggiatori immaginano che l’umanità del XXII secolo abbia dimenticato decenni di divulgazione scientifica divertente e accurata fatta dalla Stazione Spaziale e sia tornata ai canoni dell’ufficio stampa della Guerra di Corea.

Anche il cast sembra costruito come ai bei vecchi tempi del politicamente corretto di allora: sono tutti bianchi e maschi tranne la camer… pardon, ufficiale delle comunicazioni, e il pilota, che è nero. Ah, e il medico, che è un maschio bianco però con le zigrinature sulla faccia, perché è un Denobuliano, e quindi non conta.

Sulla Vulcaniana dalle tette grandi torno fra un attimo.

Dice: ma perché vuole recuperare lo spirito della serie originale. Un fan di Star Trek probabilmente citerebbe la coerenza dell’universo narrativo: dalla prima Flotta Stellare non ti puoi aspettare un capitano donna, eccetera. Il problema è che non è vero: Discovery, che cronologicamente descrive eventi non troppo lontani, è in grado di giocare con situazioni e temi tipici di Star Trek senza sembrare una roba dimenticata negli archivi e mandata in onda decenni dopo.

È chiaro che l’intento è quello di tornare alle origini: ma la scrittura è mediocre e il punto di vista terribilmente angusto; si vede anche nel modo con il quale è reso il tema portante, che è quello dell’esplorazione: per la prima volta l’umanità si avventura da sola fra le stelle, lontana dalla oppressiva tutela dei Vulcaniani. È un tema epico che è reso con un’aria da gita scolastica – maschile: ci sono un sacco di ormoni anche loro in gita premio – durante la quale ogni tanto lo sceneggiatore infila la pausa introspettiva, consistente in uno che dice: «Wow, ti rendi conto che stiamo vedendo le stelle?»; al che tutti sospirano con aria doverosamente meravigliata. La stessa scrittura mediocre riguarda il modo legnoso con il quale sono sviluppati i rapporti fra i personaggi e la loro caratterizzazione: il capitano ardito, il capo ingegnere che è un vero amico, l’ufficiale tattico taciturno, la camer… ufficiale delle comunicazioni allegra e solare, il pilota che è un nero e un bravo ragazzo.

E poi c’è la Vulcaniana dalle tette grandi, che un problema in sé.

Uno dei temi portanti è quello del rapporto di amore-odio coi Vulcaniani, che hanno trattenuto a lungo l’umanità dal balzo interstellare e della cui tutela ora ci stiamo liberando. I Vulcaniani sono amici ma anche ingombranti, e la presenza di un ufficiale scientifico Vulcaniano mette in opera una tensione di lealtà divise e di fiducia reciproca da costruire. E poi i Vulcaniani, con la loro cultura costruita esclusivamente sulla logica, rappresentano un chiaro contraltare agli emotivi Terrestri.

Solo che i temi politici non sono mai sviluppati, T’Pol non ottiene mai battute e spazio significativo neanche quando i rapporti con la sua razza sono chiamati in causa e tutto rimane molto più enunciato che fatto vivere nella storia. E T’Pol non è un maschio come Spock, ma un potenziale oggetto di desiderio sessuale – l’unica donna sul ponte di comando fra tutti quei maschioni, a parte la camer… ufficiale addetta alle comunicazioni – a cui da subito viene costruito una possibile storia con l’ingegnere. Al contrario dell’epoca del primo Star Trek, per la nostra contemporaneità tutte le storie in cui c’è un contrasto narrativo fra una donna forte in posizione dominante e un uomo o un gruppo di uomini che potenzialmente la desidera ha una carica di ambiguità: perché il rischio è quello di adottare una narrazione da un punto di vista maschile e, volontariamente o meno, raccontare una storia nella quale il progresso del personaggio corrisponde al rientrare nei ranghi da parte della protagonista – all’essere domata come la bisbetica – e non mi pare siano più i tempi per storie del genere. Qui il rischio è particolarmente alto, a partire da una scena nella prima puntata, e tutto quel po’ po’ di tematica di rapporti fra civiltà è ridotto più o meno a questa modalità: T’Pol imbronciata deve sottostare alla superiore astuzia di un terrestre, che o la intorta o la sovrasta con superiore altruismo e empatia, salvo che dopo essere stata imbronciata per un po’ poi le piac… capisce il superiore valore (maschile) terrestre: no means not no, diciamo.

Ci sono serie che riprendono opere precedenti o libri famosi e, rimettendoli in scena, in qualche modo ne fanno una recensione o aiutano in una rilettura più distaccata dell’originale oppure ne portano allo scoperto caratteristiche meno visibili. Certe volte ne costituiscono una critica, più o meno affettuosa. Nel suo tentativo di resuscitare lo spirito della serie orinale di Star Trek questa serie dell’Enterprise ottiene esattamente questo effetto: solo che quel che fa vedere non è solo l’ottimismo, il senso della meraviglia e la sensazione di progresso dell’originale, ma anche la ristrettezza mentale, l’approccio propagandistico, il bigottismo, il sessismo implicito, la povertà politica e di comprensione del mondo. Sicuramente non volevano, ma gli è venuto benissimo!

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