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La scienza del razzismo

Come successo qualche giorno fa per gli articoli sul tema della crisi dell’empatia, il fidato aggregatore mattutino di notizie mi ha segnalato a brevissima distanza fra loro alcuni articoli sulla risorgenza del razzismo scientifico, cioè su quel corpo di dottrine che postulavano l’esistenza delle razze, le basi biologiche della loro diversità e perciò la naturalità (e quindi l’ineliminabilità) delle loro differenze: se i neri sono naturalmente meno intelligenti, è inutile spendere soldi dei contribuenti per mandarli all’università, giusto? E tutto sommato è uno spreco anche farli votare, ecco.

Il razzismo scientifico ha fornito la base alle varie teorie e pratiche di eugenetica (ne parlavo a proposito di Mary Stopes), comportando una e enorme quantità di dolore per intere parti della popolazione (pensiamo alla sterilizzazione forzata per un gran numero di indesiderabili, i cui geni inferiori dovevano essere estirpati dal patrimonio genetico collettivo).

Si pensa comunemente che il razzismo scientifico sia stato soprattutto un fatto americano, legato alla questione razziale successiva alla Guerra di Secessione e contemporaneamente all’enorme numero di immigrati provenienti dai paesi asiatici e dal meridione europeo fra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo, ma in realtà di trattava di un bagaglio di pregiudizi e di ideologie a favore del dominio delle classi abbienti che è stato impiegato, volta a volta, in molti paesi del nord del mondo (la Stopes era inglese) e che ha alimentato le parti peggiori dei nazionalismi e colonialismi ottocenteschi e novecenteschi: in Italia, per esempio, quando si trattò di giustificare le leggi razziali fu esattamente alla foglia di fico del razzismo scientifico che ci si rivolse. Una discreta sintesi delle origini del movimento eugenetico e delle sue azioni nei primi decenni del ‘900 in un articolo dell’editorialista Howard Markel su PBS.

Nonostante possa sembrare il contrario, nel campo puramente scientifico il movimento eugenetico e il razzismo scientifico avevano largamente perso il loro slancio, almeno nel campo scientifico, già da prima della Seconda Guerra Mondiale. Dopo la guerra alla sempre minore credibilità scientifica di quelle teorie, più volte smentite in campo sperimentale, si sono aggiunti il peso dei crimini commessi in nome del razzismo, lo sviluppo della lotta per i diritti civili e i mutamenti sociali negli Stati Uniti e l’affermarsi delle rivendicazioni del movimento operaio in Europa, fino a rendere quelle argomentazioni sempre meno popolari, finché gli studi più avanzati sul genoma umano ne hanno definitivamente smontato ogni credibilità e le abbiamo messe in soffitta.

O così credevamo.

Gli articoli che mi sono passati sotto gli occhi, infatti (e molti altri che ho visto esistere grazie a una ricerchina su Google) dimostrano che il razzismo scientifico sta tornando in auge, tanto che l’Amercian Society on Human Genetics, la più importante associazione scientifica di genetisti al mondo si è sentita in dovere di prendere una posizione molto dura e ha deciso di dedicare al rapporto fra studi genetici e problemi sociali una rubrica fissa sul proprio giornale.

E no, non si tratta di una cosa ridicola come il fatto che i suprematisti bianchi quando si incontrano fanno in modo di tracannare grandi quantità di latte (dice che solo i bianchi anglosassoni bianchi e protestanti – ovviamente maschi – hanno la capacità di digerire il lattosio. Poi ovviamente il latte è bianco (ah-ah!) e chiaramente questo non è un caso, eh, eh?!).

Suprematisti bianchi bevono latte per protesta davanti alla instalalzione di Shia LaBeouf

Se ricordate avevo già segnalato, su questo blog, come certi studi un po’ avventurosi sul genoma dei popoli antichi corrano il rischio, come Frankenstein, di rianimare corpi che sarebbe meglio che restassero estinti: anche qui c’è un buon numero di scienziati che è abbastanza preoccupato.

In realtà Edward Burmila, su The Nation, non ha tutti i torti quando dice che, probabilmente, il razzismo scientifico non se ne è mai andato. È rimasto sopito perché si trattava di argomentazioni che gettavano discredito su chi le usava in pubblico, ma che hanno probabilmente continuato a lavorare sotto traccia. Adesso che la destra più reazionaria americana persegue scopertamente il suo sogno di restaurazione suprematista, adesso che c’è un presidente che ha bisogno di coperture ideologiche per il suo progetto di costruire muri contro i migranti, adesso che l’afflusso di popolazioni straniere ripropone anche in Europa dinamiche simili a quelle americane di cento anni fa, allora improvvisamente il razzismo scientifico è di nuovo utile, ora come allora come copertura di dinamiche di sfruttamento e di potere ben precise. Del resto, se si leggono i testi dei sostenitori dell’eugenetica di cento anni fa si ritrovano frasi che sembrano prese dall’oggi: il declino della razza bianca, la sostituzione etnica, la necessità di chiudere i confini.

Burmila nel suo breve testo collega il racconto delle origini del razzismo scientifico fatto da Markel con l’attualità politica, ma sotto questo punto di vista ho trovato più interessante un articolo più lungo e articolato di Gavin Evans per il Guardian. Oltre a passare in rassegna la galleria di mestatori, pennivendoli e seminatori d’odio mascherati che ripropongono il razzismo scientifico in forma riveduta e corretta, è interessante l’analisi che fa Evans degli addentellati politici della questione e soprattutto del modo col quale queste teorie si ricostruiscono una verginità e una credibilità, per esempio occupando la posizione di quelli che dichiarano – col solito cinismo travestito da lucidità – di essere scienziati liberi che sono capaci di dire verità sperimentali scomode che la paludata accademia, troppo preoccupata del politicamente corretto, non ha il coraggio di dire o che nasconde per calcolo politico; un meccanismo consolidato e che conosciamo bene, così come suona enormemente familiare il mascheramento di posizioni aberranti dietro posizioni falsamente aperte e perfino piene di buoni sentimenti: una dei cavalli di Troia preferiti per presentare la teoria che il QI sia determinato geneticamente è il fatto che un sottogruppo di ebrei sia più intelligente di ogni altra razza, per esempio.

Un’immagine terrapiattista del 1893

A complemento dell’articolo di Evans mi sembra si possa leggere su Medium un articolo di Justin Ward che passa in rassegna gli stessi figuri ma si concentra invece sui meccanismi giornalistici (e più in generale relativi ai mezzi di comunicazione) tramite i quali queste teorie si diffondono, passando da una posizione inizialmente assolutamente minoritaria a una di sostanziale accettazione sociale: a essere chiamati in causa sono qui anche soggetti che, se interrogati, non mancherebbero di definirsi accuratamente antirazzisti ma che poi, magari per un pugno di click in più, costruiscono l’ambiente nel quale queste teorie si diffondono.

Tutti gli articoli che vi ho segnalato sono del 2018 (fra marzo e ottobre). Il tema però non è ovviamente estinto e ritorna in un articolo di Phil Gasper per l’Interntional Socialist Review di questo mese. Se avrete letto gli altri articoli il materiale presente qui non potrà più sorprendervi (anche se il taglio è diverso dagli altri e quindi interessante), ma la bibliografia finale è sufficientemente estesa da potervi tenere impegnati per lungo tempo!

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