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Matrimoni infelici

Sto ancora leggendo la Divina Commedia, ma mi è venuta voglia di un romanzo, di una storia, quindi dopo il capitolo che rappresenta la mia preghiera laica mattutina (e talvolta in questa Quaresima, devo dire, dopo le Lodi) mi sono messo a leggere Madame Bovary, in francese.

Di solito in questi casi si dice: sto rileggendo, perché se no si fa brutta figura. Io in realtà Madame Bovary sono sicuro di averlo già letto, ma sono anche sicuro di averlo letto intorno ai vent’anni per vedere come andava a finire, e invece adesso voglio leggerlo per vedere come (e cosa) scrive Flaubert.

Me ne è venuta voglia anche perché l’altro giorno sono capitato per caso su una vecchissima puntata di Pickwick, con Baricco che parlava di Flaubert e delle descrizioni e mi ha incuriosito: voglio vedere se ci trovo le stesse cose che dice lui.

Parentesi: Pickwick era un gran programma, bisogna dire. Ovviamente è datatissimo, però ad avercene oggi, di programmi così, anche con il paternalismo delle parti affidate alla Zucconi e l’autocompiacimento di Baricco.

Comunque non è di tutto questo che volevo parlare, ma di una prima cosa che ho trovato adesso che sono ancora all’inizio (vado pianissimo perché mi fermo a cercare sulla app del vocabolario tutte le parole che non conosco, per paura di perdermi qualcosa, e addirittura per il momento Emma non è ancora entrata in scena, anche se Charles proprio ora sta andando ad aggiustare una gamba rotta a un vecchio contadino che vive da solo assistito da una giovane damigella che sospetto fortemente sia la futura signora Bovary).

Insomma: sono ancora all’inizio ma resto colpito dal numero di matrimoni infelici – resi con malinconica maestria – che ho già incontrato. In particolare quello di Charles, in una pagina magnifica che vi fornisco direttamente in italiano:

Tuttavia, l’averlo allevato, l’avergli fatto imparare la medicina, l’aver scoperto Tostes perché potesse esercitarla, non bastava ancora: bisognava dargli moglie. E sua madre gliela trovò: la vedova di un usciere di Dieppe, sui quarantacinque anni, e con milleduecento franchi di rendita.

Per quanto fosse brutta, secca come una fascina e fiorita di porri come una primavera, alla signora Dubuc non mancavano certo pretendenti fra cui scegliere. Per raggiungere il suo scopo mamma Bovary fu costretta a eliminarli tutti e riuscì con molta abilità a sventare perfino gli intrighi di un salumiere spalleggiato dai preti.

Charles aveva intravisto nel matrimonio la possibilità di migliorare la propria situazione, immaginando una maggiore libertà e la facoltà di disporre a suo piacere della propria persona e del proprio denaro. Ma la padrona era la moglie: egli doveva in pubblico dire questo e non quello, mangiare di magro il venerdì, vestirsi come voleva lei e non dar pace, per suo ordine, ai clienti che non pagavano. Era lei ad aprire la corrispondenza; spiava le mosse del marito, e origliava contro la tramezza quando venivano delle donne a farsi visitare. Bisognava portarle tutte le mattina la cioccolata a letto e avere per lei ogni sorta di riguardi. Si lagnava in continuazione dei suoi nervi, dei suoi polmoni, delle sue malinconie. Il rumore dei passi la infastidiva; se restava sola, la solitudine le era insopportabile, ma se tornavano da lei era insopportabile, ma se tornavano da lei era soltanto, di certo, per vederla morire. La sera quando Charles rientrava, ella tirava fuori di sotto le coperte le lunghe e magre braccia, gliele buttava al collo e, dopo averlo fatto sedere sulla sponda del letto, cominciava a parlargli dei suoi dispiaceri: era stata dimenticata, suo marito amava un’altra. L’avevano avvertita che sarebbe stata infelice; finiva poi per chiedergli qualche sciroppo ricostituente e un po’ più d’amore.

Che tristezza, no, povere anime? E riflettevo come mi sembri che le famiglie infelici che erano il pane e companatico dei grandi scrittori ottocenteschi, immagino perché corrispondevano all’esperienza concreta dei loro lettori, siano, in qualche modo, molto scomparse dall’orizzonte delle narrazioni popolari contemporanee: ci sono serial pieni di intrighi familiari e anche di dolore, ma lo squallore morale, l’infelicità cronica a bassa intensità, la condanna dei sentimenti all’ergastolo a vita, la piccineria pervasiva, quelli non mi sembrano così frequenti nei racconti contemporanei.

Sarà, mi sono chiesto, perché non ci sono più famiglie infelici? Perché il divorzio e le convivenze offrono fortunate vie di fuga prima indisponibili? Non sono convinto, anche se certo quello squallore, quei compromessi morali, quella infelicità, si sono molto trasformati. Però, insomma, mi sono chiesto: chi è che li racconta, oggi?

P.S. Che poi, leggere questi romanzi induce con tutto il cuore a ringraziare il Signore per il fatto di essere felici.

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