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Gioventù bruciata

Ho trovato molto interessante un articolo del 5 gennaio segnalato da Francesco Rugerfred Sedda e pubblicato originariamente su Buzzfeed, che ragiona intorno al disagio della generazione dei millennial in termini di burn out, cioè sostanzialmente in termini di stress post-traumatico (un trauma a bassa intensità, ma continuo). Perché fare cose apparentemente semplici è un tale carico emotivo che si finisce per rimandare a oltranza? Perché c’è sotto un esaurimento nervoso collettivo, ecco perché: questa sarebbe la teoria, in estrema sintesi.

Devo dire che la mia reazione iniziale è stata che l’articolo era interessante anche se totalmente appartenente al campo degli americani che si guardano l’ombelico e complicano le cose più semplici, trasformando in fastidiose teorie psicologiche quello che è il banale risultato di rapporti di forza fra classi sociali o di tendenze di lungo periodo dell’educazione familiare (che in ultima analisi dipende dalla struttura dei rapporti economici, e si torna là).

L’ho pensato con un po’ di irritazione, lo ammetto.

Anzi, con molta irritazione. Può anche essermi venuta in mente la parola vittimismo.

Poi però sono andato a vedere la mostra di Zerocalcare e ci ho trovato la balena sulle spalle, che era proprio in tema…

… e ho avuto un soprassalto di autocoscienza, perché Zerocalcare non è certo un cretino americano e questo mi ha fatto ricordare che anch’io che pure non sono un millennialspesso mi lascio le cose da fare fino all’ultimo – se non oltre e ancora più oltre – e da tempo mi sono un po’ convinto che, oltre che pigrizia, è anche un meccanismo di autodifesa del mio equilibrio mentale, una valvola di sicurezza di una mia fragilità profonda.

E anche molta pigrizia, però.

E quindi avevo pensato di introdurre alla lettura con questa cosa, e cioè che un po’ sono minchiate americane e un po’ sono cose vere e un po’ sono anche vittimismo che nega la pigrizia e un po’ anche il segno di fallimenti familiari di lungo periodo. Poi sempre alla mostra ho trovato un pannello dove c’era un’osservazione di passaggio che mi è sembrata in tema, e che chiudeva il quadro:

[il fumetto Sei pagine su tre mesi di carcere] … mette in evidenza il paradosso di un provvedimento iniquo, l’ennesimo comminato a chi prova ad opporre un argine all’intolleranza dilagante. Dirà più tardi: «Il problema non è che la gente non si ribella, è che quando si ribella viene seppellita in galera e, negli anni, quelli che volevano buttare la chiave spesso sono stati quelli che si lamentavano perché non si ribellava nessuno».

Pannello della mostra “Scavare fossati – Nutrire coccodrilli”

E quindi i miei spunti di commento a questo articolo sono che un po’ sono solipsismi molto americani, e un po’ è strapotere del capitalismo, e un po’ è pigrizia e vittimismo, e un po’ è davvero burn out e un po’ è infine il frutto di una sofisticata repressione sociale che non ha lasciato scampo a un’intera generazione. Se volete, vedete voi di stabilire le proporzioni esatte.

Come sempre ho lasciato i link originali, anche se puntavano a testi in inglese.

Come i millennial sono diventati la generazione del burn out

Non riuscivo a capire perché dei compiti piccoli e ben definiti sulla mia lista delle cose da fare sembrassero così insormontabili. La risposta è sia più complessa che molto più semplice di quanto mi aspettassi.

di Anne Helen Petersen

«Ho provato a registrarmi per le elezioni del 2016, ma ormai era oltre il termine quando alla fine ho provato a farlo», ha spiegato al New York Magazine lo scorso autunno un uomo di 27 anni di nome Tim. «Odio spedire qualcosa per posta; mi causa ansia». Tim stava delineando le ragioni per cui lui, come altri undici millennial intervistati dalla rivista, probabilmente non avrebbe votato alle elezioni di mid term del 2018. «La quantità di lavoro da un punto di vista logico non è molta», ha continuato. «Compilare un modulo, spedirlo, andare in un posto determinato in un giorno determinato. Ma questo tipo di compiti può essere difficile per me, se non ho un certo entusiasmo al riguardo».

Tim prosegue ammettendo che alcuni amici lo avevano aiutato a registrarsi per votare, e che aveva in programma, probabilmente, di fare in modo di farcela per il mid term. Ma la sua spiegazione – anche se, come faceva notare, in questo caso il suo bisogno di sforzarsi è stato causato in parte dal suo ADHD [disturbo di attenzione, NdRufus] – ha dato la stura alla tendenza contemporanea a prendersela con l’incapacità dei millennial di portare a termine compiti apparentemente di base. Crescete, così dice l’opinione generale. La vita non è così difficile. «Quindi questo è il modo con cui il mondo finisce», ha twittato il giornalista parlamentare dell’HuffPost, Matt Fuller. «Non con un botto ma con un mucchio di millennial che non sanno come spedire le cose».

Spiegazioni come quella di Tim sono il nucleo della reputazione dei millennial: siamo viziati, privilegiati, pigri e un fallimento rispetto a quello che viene definito essere adulti [in inglese presentato come un singolo verboadulting, “fare gli adulti”, “adultizzare”], una parola inventata dai millennial come termine generico per indicare i compiti legati a un’esistenza autosufficiente. Le manifestazioni dell’essere adulti spesso rivelano uno sbalordimento privilegiato per la realtà di, beh, la vita: che devi pagare le bollette e andare al lavoro; che devi comprare cibo e cucinarlo se vuoi mangiarlo; che le azioni hanno conseguenze. Essere adulti è difficile perché la vita è dura – o, come un articolo di Bustle ammonisce i lettori, «tutto è difficile se si vuole guardarlo in quel modo».

I millennial amano lamentarsi di quegli altri millennial che danno loro una cattiva fama. Ma proprio mentre mi facevo uscire il fumo dalle orecchie per l’ansia da ufficio postale di questo ventisettenne, ero immersa fino al collo in una tendenza ciclica, sviluppata negli ultimi cinque anni, che sono arrivata a chiamare paralisi da commissioni. Mi capita di mettere qualcosa nella mia lista delle cose da fare settimanali, e questa si trascina in avanti, da una settimana all’altra, fino a perseguitarmi per mesi.

Nessuno di questi compiti era particolarmente difficile: far affilare i coltelli, portare gli stivali dal calzolaio, registrare il mio cane per un nuovo permesso, mandare a qualcuno una copia firmata del mio libro, fissare un appuntamento con il dermatologo, regalare dei libri alla biblioteca, passare l’aspirapolvere nella macchina. Una manciata di mail – una di un caro amico, una di un ex studente che voleva sapere come me la cavavo – fermentava nella mia casella di posta personale, che uso come una sorta di elenco di cose da fare alternativo, al punto da iniziare a chiamarla la casella della vergogna.

Non è come se nel resto della mia vita stessi rimanendo indietro. Stavo pubblicando storie, scrivendo due libri, preparando da mangiare, portando a termine un trasloco attraverso il paese, pianificando viaggi, pagando il mio mutuo studentesco, facendo esercizio fisico su base regolare. Ma quando si arrivava alle cose banali, le priorità di medio livello, la roba che non avrebbe reso il mio lavoro più facile o i miei risultati migliori, le sfuggivo.

La mia vergogna per queste cose da fare aumenta ogni giorno. Ricordo a me stessa che mia madre stava tutto il tempo a fare commissioni. Le piacevano? No. Ma le portava a termine. Quindi, perché non riuscivo a darmi una mossa – specialmente quando le operazioni da fare erano tutte, a prima vista, facilmente completabili? Mi sono accorta che la stragrande maggioranza di queste cose da fare condivideva un elemento in comune: il loro principale beneficiario sono io, ma non in un modo che potrebbe davvero migliorare drasticamente la mia vita. Si tratta di compiti apparentemente ad alto sforzo e bassa remunerazione, e mi paralizzano – non diversamente dal modo con cui registrarsi per votare ha paralizzato Tim.

Tim e io non siamo soli in questa paralisi. Il mio compagno è stato così frustrato dal procedimento pieno di passaggi successivi e incredibilmente (e volutamente) confuso di presentare dei moduli per un rimborso assicurativo per ogni singola settimana di cure mediche che per mesi semplicemente non li ha mandati – mangiandosi oltre mille dollari. Un’altra donna mi ha raccontato di avere un pacco da spedire poggiato in un angolo della casa da oltre un anno. Un amico ha ammesso di aver sprecato centinaia di dollari in vestiti che non gli stavano bene perché non è stato capace di restituirli. Paralisi da commissioni, ansia da ufficio postale – sono diverse manifestazioni della stessa malattia.

Negli ultimi due anni, ho rifiutato avvertimenti – da curatori editoriali, da familiari, da colleghi – che potessi essere al limite del burn out. Nella mia testa il burn out era qualcosa che affrontavano gli operatori umanitari, gli avvocati di alto livello o i giornalisti investigativi. Era qualcosa che poteva essere curato con una settimana in spiaggia. Stavo ancora lavorando, stavo ancora portando a termine altre cose – ovviamente non ero esaurita.

Ma più ho cercato di dare un senso alla mia paralisi da commissioni, più i reali parametri del burn out hanno cominciato a rivelarsi. Il burn out, i comportamenti e i pesi che lo accompagnano non sono, in realtà, qualcosa che si può curare andando in vacanza. Non è limitato a lavoratori impiegati in ambienti acutamente ad alto stress. E non è una malattia passeggera: è la condizione dei millennial. È la nostra temperatura di base. È la nostra musica di sottofondo. È il modo come sono le cose. Sono le nostre vite.

Questa presa di coscienza ha riformulato le mie recenti fatiche: perché non posso fare questa roba banale? Perché sono esaurita. Perché sono esaurita? Perché ho interiorizzato l’idea che dovrei lavorare tutto il tempo. Perché ho interiorizzato questa idea? Perché tutto e tutti nella mia vita l’ha rinforzata – esplicitamente e implicitamente – sin da quando ero giovane. La vita è sempre stata dura, ma molti millennial non sono attrezzati per affrontare i particolari modi in cui è diventata dura per noi.

E quindi, a questo punto? Dovrei meditare di più, trattare per farmi dare più tempo libero, delegare compiti all’interno della mia relazione, compiere atti di cura di me stessa e impiantare dei limiti di tempo sui miei social? In che modo, in altre parole, posso ottimizzare me stessa per portare a termine quei compiti banali e teoricamente curare il mio esaurimento? Man mano che noi millennial arriviamo ai nostri trent’anni, questa è la domanda che continuiamo a farci – e alla quale continuiamo a non riuscire a trovare una risposta adeguata. Ma forse questo è perché la domanda è completamente sbagliata.

Nell’ultimo decennio, il termine millennial è stato usato per descrivere o imputare ciò che è giusto o sbagliato nei giovani, ma nel 2019 i millennial sono da tempo entrati nell’età adulta: i più giovani hanno ventidue anni; i più vecchi, come me, qualcosa intorno ai trentotto anni. Ciò ha richiesto un cambiamento nel modo in cui le persone all’interno e all’esterno della nostra generazione costruivano le loro critiche. Non siamo più adolescenti incapaci; siamo adulti fatti e cresciuti e le sfide che affrontiamo non sono passeggere, ma sistemiche.

Molti dei comportamenti attribuiti ai millennial sono i comportamenti di uno specifico sottoinsieme di persone prevalentemente bianche, in gran parte borghesi, nate tra il 1981 e il 1996. Ma anche se sei un millennnial che non è cresciuto in un ambiente privilegiato, hai subito l’impatto dei cambiamenti sociali e culturali che hanno modellato la generazione. I nostri genitori – un mix di giovani baby boomer e vecchi generazione X – ci hanno cresciuto durante un’epoca di relativa stabilità economica e politica. Come per le generazioni precedenti, c’era l’aspettativa che la successiva sarebbe stata meglio – sia in termini di salute che finanziariamente – di quella che l’aveva preceduta.

Ma man mano che i millennial entrano nella media età adulta, questa previsione si è dimostrata falsa. Dal punto di vista finanziario, molti di noi sono impantanati molto indietro rispetto a dov’erano i nostri genitori quando avevano la nostra età. Abbiamo molto meno risparmio, molto meno capitale, molta meno stabilità e molto, molto più debito studentesco. La più grande generazione aveva la Depressione e il GI Bill [una legge per garantire l’istruzione universitaria gratuita a chi aveva fatto il militare nella Seconda Guerra Mondiale, NdRufus]; i baby-boomer avevano l’età d’oro del capitalismo; la generazione X aveva la deregulation e la trickle down economics [i vantaggi a cascata della liberalizzazione selvaggia, NdRufus]. E i millennial? Abbiamo avuto i finanziamenti alle start up, ma ci siamo presi anche la crisi finanziaria del 2008, il declino della classe media e il sorgere dell’1% [il numero ridotto di super-ricchi che assomma in sé gran parte delle ricchezze mondiali, NdRufus], il costante declino dei sindacati e degli impieghi stabili e a tempo pieno.

Man mano che il mondo degli affari americano diventava più efficiente, migliore nell’estrarre profitto, la generazione successiva aveva bisogno di posizionarsi in maniera da poter competere. Non potevamo semplicemente presentarci con un diploma e aspettarci di ottenere e mantenere un posto di lavoro che ci permettesse di andare in pensione a cinquantacinque anni. In un significativo cambiamento rispetto alle generazioni precedenti, i millennial dovevano ottimizzare se stessi per essere i migliori lavoratori possibili.

E quel processo iniziava molto presto. In Kids These Days: Human Capital e Making of Millennials, Malcolm Harris espone la miriade di modi in cui la nostra generazione è stata addestrata, tagliata a misura, modellata e ottimizzata per l’ambiente di lavoro – prima a scuola, poi lungo tutta l’istruzione secondaria – a partire dai bambini molto piccoli. «La gestione del rischio era un tempo una pratica aziendale», scrive Harris, «ora è la nostra strategia dominante di educazione dei figli». A seconda dell’età, questa idea si applica a ciò che i nostri genitori ci hanno o non ci hanno permesso di fare (giocare su pericolose strutture al parco giochi, uscire senza telefono cellulare, guidare senza un adulto in macchina) e come ci hanno permesso di fare le cose che abbiamo effettivamente fatto (imparare, esplorare, mangiare, giocare).

Harris punta il dito verso le pratiche che sono ora considerate usuali che ottimizzano il gioco dei bambini, un atteggiamento spesso descritto come genitorialità ad alta intensità. Andare in giro per il quartiere appuntamenti per giocare con altri bambini programmati dai genitori. L’asilo nido è diventato pre-preparazione alla scuola. Giocare a nascondino o a pallone per strada si sono trasformati in campionati regolamentati in maniera stringente che durano tutto l’anno. L’energia non canalizzata (diagnosticata come iperattività) è stata medicalizzata e punita.

La mia infanzia tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 è stata solo parzialmente definita da questo tipo di ottimizzazione e monitoraggio dei genitori, soprattutto perché vivevo in una città rurale dell’Idaho settentrionale, dove attività strutturate di questo genere erano scarse. Ho trascorso il mio tempo libero giocando con (pericolosissime!) altalene e giostre. Indossavo un casco per andare in bici e skateboard, ma io e mio fratello eravamo gli unici bambini a farlo fra tutte le nostre conoscenze. Non ho fatto stage durante la scuola superiore e il college, perché non erano ancora una componente usuale di queste due esperienze. Ho preso lezioni di piano per divertimento, non per il mio futuro. Non avevo un corso di preparazione al SAT [il tet di attitudine all’ingresso all’università, NdRufus]. Ho fatto l’unico corso di livello universitario per studenti medi che avevo a disposizione e ho fatto domanda per l’università (su carta, a mano!) sulla base di brochure e brevi resoconti in un annuario dei Migliori college.

Ma eravamo all’inizio della fine di quell’atteggiamento – verso il modo di essere genitori, verso il tempo libero dei bambini, verso la scelta del college. E non solo tra genitori borghesi, istruiti, stereotipicamente elicotteri[nel dibattito educativo americano recente, genitori estremamente protettivi e invasivi rispetto al futuro del figlio, helicopter parents, NdRufus]: oltre a essere genitori ad alta intensità, i padri e le madri dei millennial sono anche caratterizzati da comportamenti genitoriali da ronda di vigilanza, nei quali, come li descrive la sociologa Linda M. Blum, «l’inflessibile vigilanza e la difesa di una madre per il suo bambino [assume la forma] imperativa di una ricerca morale solitaria».

Recenti ricerche hanno rilevato che i comportamenti da ronda di vigilanza attorno alle vite dei figli attraversano le linee di demarcazione di razza e di classe. Magari una famiglia suburbana dell’alta borghesia assume come missione che il proprio bambino entri in una università della Ivy League, mentre una mamma di Filadelfia che non ha avuto la possibilità di andare all’università in prima persona si è assunta la missione che sua figlia sia la prima in famiglia ad arrivare al college. Gli obiettivi sono in qualche modo diversi, ma la supervisione, l’atteggiamento mentale, la continua valutazione del rischio e la pianificazione per portare quel bambino a quell’obiettivo sono molto simili.

Non è stato fino a dopo l’università che ho iniziato a vedere i risultati di quegli atteggiamenti in azione. Quattro anni dopo la laurea, gli ex colleghi si lamentavano che l’università si era riempita di nerd: non ci sono nemmeno più feste il martedì! Ho riso dell’eterno ritornello – Questi ragazzi più giovani, che sfigati, noi eravamo molto più fighi – ma fino a quando non sono tornata al campus anni dopo come docente non ho capito quanto fosse fondamentalmente diverso l’orientamento di quegli studenti verso lo studio. C’erano ancora fastidiosi ragazzi e le corrispondenti ragazzine alla moda nelle confraternite esclusive, ma erano di gran lunga più studiosi di quanto lo fossero stati i miei colleghi. Saltavano meno lezioni. Frequentavano religiosamente gli orari di ricevimento. Mandavano mail a tutte le ore. Ma erano anche secchioni ansiosi alla caccia di buoni voti, paralizzati al pensiero di laurearsi e regolarmente messi in grave difficoltà da incarichi che richiedessero creatività. Erano stati tenuti per mano per tutta la vita e volevano che io pure li prendessi per mano. Erano, in una parola, spaventati .

Ogni studente vicino alla laurea ha paura, in una certa misura, del futuro, ma qui si era su un livello diverso. Quando la mia classe terminò il suo percorso di lettere moderne, ci disperdemmo in lavoretti temporanei: io lavorai in un ranch per turisti; un’altra amica fece la baby-sitter per l’estate; uno si trovò un lavoro in una fattoria in Nuova Zelanda; altri sono diventati istruttori di rafting e da lì passarono a fare i maestri di sci. Non pensavamo che il nostro primo lavoro fosse importante; era solo un lavoro e alla fine avrebbe portato, per vie traverse, al Lavoro.

Ma questi studenti erano convinti che il loro primo lavoro appena usciti dal college non solo avrebbe determinato la loro traiettoria di carriera, ma anche il loro valore intrinseco per il resto della loro vita. Ho detto a uno studente, le cui dozzine di domande di tirocinio e di inserimento lavorativo non avevano prodotto alcun risultato, che avrebbe dovuto spostarsi da qualche parte divertente, trovare un lavoro qualunque e capire cosa le interessasse e che tipo di lavoro non volesse fare – un suggerimento che causò uno scoppio di pianto. «Ma cosa dirò ai miei genitori?», disse. «Voglio un lavoro fantastico che mi appassioni!».

Queste aspettative hanno incapsulato in sé il progetto di allevamento dei millennial, in cui gli studenti interiorizzano la necessità di trovare un lavoro che impressioni positivamente i loro genitori (stabile, con una paga discreta, identificabile come un buon lavoro), che faccia una bella figura con i loro coetanei (in un’azienda figa) e soddisfi ciò che gli è stato raccontato essere l’obiettivo finale di tutta questa ottimizzazione della vita infantile: fare un lavoro che ti appassioni. Che quel lavoro sia essere un giocatore sportivo professionista, un social manager in Patagonia, un programmatore in una start up, o un socio in uno studio legale sembra essere meno importante dello spuntare tutte quelle caselle.

O almeno questa è la teoria. Quindi cosa succede quando i millennial iniziano la ricerca effettiva del Santo Graal di quel tipo di carriera lavorativa – e iniziano a adultizzare – ma l’impressione è ben diversa dal sogno che è stato promesso loro?

Come la maggior parte dei millennial più anziani, il mio percorso professionale è stato caratterizzato da due catastrofi finanziarie. Nei primi anni 2000, quando molti di noi stavano giusto entrando per la prima volta nell’università o nella forza lavoro, scoppiò la bolla delle dot com. Il risultante disastro finanziario non è stato così esteso come la crisi del 2008, ma ha reso più difficile l’accesso al mercato del lavoro e silurato il mercato azionario, il che ha indirettamente colpito i millennial che contavano sugli investimenti dei genitori per condurli attraverso l’università. Quando mi sono laureata in lettere nel 2003 e mi sono trasferita a Seattle, la città era ancora abbordabile, ma mancavano posti di lavoro qualificati. Lavoravo come baby sitter, una coinquilina come assistente, un’amica si è rassegnata alla vendita di quelli che in seguito sarebbero stati conosciuti come mutui subprime.

Quei due anni come bambinaia sono stati duri – mi annoiavo terribilmente e viaggiavo un’ora all’andata e al ritorno – ma è l’ultima volta che mi ricordo di non essere stata in burn out. Avevo un cellulare, ma non potevo nemmeno mandare messaggi; controllavo la posta una volta al giorno su un PC nella camera della mia amica. Poiché avevo trovato lavoro attraverso un’agenzia di baby sitter, il mio contratto comprendeva assistenza sanitaria, giorni di malattia e ferie pagate. Guadagnavo 32 000 dollari all’anno e ne pagavo cinquecento al mese d’affitto. Non avevo debiti studenteschi da prima della laurea, e la mia macchina era già pagata. Non risparmiavo molto, ma avevo soldi per il cinema e cene fuori. Non Ero stimolata intellettualmente, ma ero brava nel mio lavoro – prendersi cura di due bambini piccoli – e avevo un confine chiaro tra quando ero in servizio e quando no.

Poi quei due anni finirono e la maggior parte del mio gruppo di amici iniziò l’esodo ai corsi di laurea magistrale. Ci siamo iscritti a programmi di dottorato di ricerca, scuola di legge, medicina, architettura, programmi di specializzazione in formazione, corsi avanzati di discipline aziendali. Non era perché eravamo affamati di maggiore conoscenza. Era perché eravamo affamati di posti di lavoro sicuri, da classe media – e si diceva, correttamente o meno, che quei lavori erano disponibili solo attraverso cicli universitari avanzati. Appena ritornati all’università, e mentre la microgenerazione alle nostre spalle emergeva dal college verso i posti di lavoro, giunse il colpo della crisi finanziaria del 2008.

In qualche modo la crisi ha colpito tutti, ma il modo in cui ha influenzato i millennial è con un colpo alle fondamenta: ha sempre definito la nostra esperienza nel mercato del lavoro. I lavoratori più esperti e quelli appena licenziati hanno saturato le richieste di assunzione per lavori di livello inferiore o di accesso al mercato, una volta in gran parte riservati ai neolaureati. Non trovavamo lavoro, o trovavamo solo lavori part-time, lavori senza benefici o lavori che in realtà erano lavoretti multipli per integrare il reddito trasformati in un unico lavoro. Di conseguenza, siamo tornati a casa con i nostri genitori, abbiamo avuto compagni di stanza, siamo tornati all’università, abbiamo provato a far funzionare le cose. Dopo tutto, eravamo problem solver – e ci era stato insegnato che se avessimo lavorato di più, tutto si sarebbe risolto.

In superficie, si è risolto. L’economia si è ripresa. Molti di noi se ne sono andati dalla casa dei nostri genitori. Abbiamo trovato lavoro. Ma quello che non siamo riusciti a trovare è stata la sicurezza finanziaria. Poiché l’istruzione – lauree magistrali, lauree, formazione professionale, corsi on line – era definita come il migliore e l’unico modo per sopravvivere, molti di noi sono emersi da quei percorsi con prestiti da pagare che le nostre prospettive post laurea non riuscono a compensare. La situazione è ancora più grave se si è entrati in una scuola a scopo di lucro, dove il debito medio totale per un titolo di studio di quattro anni è 39 950 dollari e le prospettive di lavoro dopo la laurea sono ancora più desolanti.

Man mano che frequentavo gli studi specialistici ho accumulato sempre più debiti – debiti che razionalizzavo, come molti della mia generazione, come l’unico mezzo per raggiungere l’obiettivo finale di 1) un buon lavoro che 2) sarebbe stato o sembrato figo e 3) mi avrebbe permesso di seguire la mia passione. Nel mio caso, una cattedra a tempo pieno come professore ordinario di studi sulla comunicazione. In passato, conseguire un dottorato di ricerca era un’impresa che generalmente non comportava debiti: gli accademici si facevano strada verso il proprio titolo mentre lavoravano come assistenti alla didattica, il che pagava il costo della vita e compensava il costo delle tasse universitarie.

Quel modello ha iniziato a cambiare negli anni ’80, in particolare nelle università pubbliche che si sono trovate costrette a compensare i tagli dei finanziamenti statali. Il salario di un assistente alla didattica era molto più basso del costo di un professore di ruolo, quindi le università non solo hanno mantenuto la loro offerta di dottorati, ma l’hanno aumentata, sebbene con fondi via via minori per pagare adeguatamente quegli studenti. Tuttavia, migliaia di studenti di dottorato si sono tenuti aggrappati all’idea di una cattedra universitaria. E più stretto è diventato il mercato accademico, più abbiamo lavorato duramente. Non abbiamo provato a rompere il sistema, poiché non è così che siamo stati cresciuti. Abbiamo provato a guadagnarcelo.

Non ho mai pensato che il sistema fosse equo. Sapevo che solo pochi potevano guadagnarselo. Ho solo creduto di poter continuare a ottimizzare me stessa per diventare una di loro. E mi ci sono voluti anni per capire le vere ramificazioni di quel tipo di atteggiamento mentale. Avevo lavorato duramente durante l’università, ma essendo una millennial più anziana, le aspettative lavorative erano più moderate. Ci piaceva dire che lavoravamo a fondo e ce la spassavamo a fondo – e c’erano dei confini chiari attorno a ciascuna di queste attività. La scuola di specializzazione, allora, è stato dove ho imparato a lavorare come una millennial, vale a dire, senza tregua. La mia nuova parola d’ordine era: «Tutto ciò che è buono è cattivo, tutto ciò che è male è buono»: le cose che avrebbero dovuto sembrare buone (il tempo libero, non lavorare) sembravano cattive perché mi sentivo in colpa per non lavorare; le cose che avrebbero dovuto sembrare male (lavorare tutto il tempo) sembravano buone perché stavo facendo quello che pensavo avrei dovuto e bisognava fare per avere successo.

Nell’organizzazione del mio master, il lavoro degli studenti laureati era sfruttato in maniera discutibile, ma eravamo sindacalizzati e pagati in un modo che rendeva possibile uscire dal percorso senza debiti. La nostra assicurazione sanitaria era solida; le dimensioni delle classi erano gestibili. Ma tutto è cambiato nel mio programma di dottorato in Texas – uno stato del diritto al lavoro, in cui i sindacati, se anche esistessero, non hanno alcun potere contrattuale. Sono stata pagata abbastanza da coprire l’affitto di un mese ad Austin, con duecento dollari avanzati per tutto il resto. Ho insegnato da sola in classi di sessanta studenti. Le uniche persone nella mia coorte anagrafica che non hanno dovuto contrarre prestiti avevano partner con lavori veri o soldi di famiglia; molti di noi si sono sobbarcati debiti per il privilegio di prepararci a non avere prospettive di lavoro. O abbiamo continuato a lavorare o abbiamo fallito.

Così abbiamo preso quei prestiti, con l’assicurazione del governo federale che se, dopo la laurea, fossimo andati a lavorare in un campo di interesse pubblico (come insegnare in un college o università) e avessimo pagato regolarmente una percentuale dei nostri prestiti per 10 anni, il resto sarebbe stato condonato. L’anno scorso – il primo in cui i laureati idonei potevano richiedere il condono – solo l’1% delle domande è stato accettato.

Quando parliamo di debito studentesco dei millennial, non stiamo parlando solo dei pagamenti che impediscono loro di partecipare a istituzioni americane come la proprietà della casa o l’acquisto di diamanti. Riguarda anche il costo psicologico del rendersi conto che ti è stato insegnato che un qualcosa valeva la pena, e tu sei giunto a crederlo in prima persona – che valevano la pena i prestiti, la fatica, tutta l’auto-ottimizzazione – e non era così.

Una cosa che rende la consapevolezza ancora più bruciante è guardare on line gli altri vivere le loro vite apparentemente fighe, appassionate e degne di essere vissute. Sappiamo tutti che ciò che vediamo su Facebook o Instagram non è reale, ma ciò non significa che non giudichiamo noi stessi in rapporto a quello. Trovo che i millennial siano molto meno gelosi di oggetti o proprietà sui social media rispetto alle esperienze olistiche lì rappresentate, il tipo di cosa che spinge le persone a commentare, voglio la tua vita. Quel mix invidiabile di tempo libero e viaggi, l’accumulo di animali domestici e di bambini, i paesaggi abitati e il cibo consumato, sembra non solo desiderabile, ma equilibrato, soddisfatto e non toccato dal burn out.

E anche se il lavoro in sé è raramente rappresentato, è sempre lì. Periodicamente, viene fotografato come uno spazio divertente o folle, e sempre remunerativo o gratificante. Ma la maggior parte delle volte, è la cosa da cui ti stai liberando: hai lavorato abbastanza duramente da goderti la vita.

Il feed dei social media – e in particolare Instagram – è quindi prova dei frutti del duro, remunerativo lavoro e del lavoro in se stesso. Le foto e i video che inducono la gelosia più grande sono quelle che suggeriscono che un perfetto equilibrio (lavoro a fondo, mi diverto a fondo!) è stato raggiunto. Ma ovviamente, per la maggior parte di noi, non è così. Pubblicare sui social media, dopotutto, è un modo per narrativizzare la nostra vita: quello che stiamo dicendo a noi stessi di come è la nostra vita. E quando non sentiamo la soddisfazione che ci è stato insegnato che dovremmo ricevere da un buon lavoro che è appagante, bilanciato con una vita personale che lo è altrettanto, il modo migliore per convincerti che lo stai sentendo è quello di illustrarlo per gli altri.

Per molti millennial, una presenza sui social media – su LinkedIn, Instagram, Facebook o Twitter – è diventata anche parte integrante del modo con cui ottenere o mantenere un lavoro. L’esempio più puro è l’influencer, la cui intera fonte di guadagno consiste nell’esibire e mediare il sé on line. Ma i social sono anche il mezzo attraverso il quale molti lavoratori della conoscenza – cioè lavoratori che gestiscono, elaborano o traggono significato dalle informazioni – commercializzano e trasformano se stessi in un marchio riconoscibile. I giornalisti usano Twitter per conoscere altre storie, ma lo usano anche per sviluppare un marchio personale e un seguito che può essere messo a frutto; le persone usano LinkedIn non solo per i curriculum e per fare rete, ma per pubblicare articoli che diano testimonianza della loro personalità (il loro marchio identificativo!) come manager o imprenditori. I millennial non sono gli unici a farlo, ma noi siamo quelli che l’hanno perfezionato e che quindi definiscono gli standard per chi lo fa.

Branding è una parola adatta per questo lavoro, in quanto sottolinea ciò che il sé del millennial diventa: un prodotto. E come nell’infanzia, il lavoro di ottimizzazione di quel marchio sfuma quel che rimane dei confini tra lavoro e gioco. Non c’è tempo in cui non sei in servizio quando a tutte le ore potresti stare documentando le tue esperienze così personalmente caratteristiche o twittando le tue osservazioni altrettanto personalmente caratteristiche. L’ascesa degli smartphone rende questi comportamenti privi di attrito e quindi più pervasivi, più generalizzati. Nei primi giorni di Facebook, dovevi scattare una foto con la tua fotocamera digitale, caricarla sul tuo computer e pubblicarla in un album. Ora, il tuo telefono è una fotocamera sofisticata, sempre pronta a documentare ogni componente della tua vita – in foto facilmente manipolabili, in raffiche di brevi video, in aggiornamenti costanti su Instagram Stories – e a facilitare la fatica di esibirsi per il consumo pubblico.

Ma il telefono è anche, e in maniera altrettanto essenziale, un guinzaglio che lega al posto di lavoro vero. La posta elettronica e Slack fanno in modo che i dipendenti siano sempre accessibili, sempre in grado di lavorare, anche dopo aver lasciato il luogo di lavoro fisico e i tradizionali limiti orari dalle nove alle diciassette del lavoro retribuito. I tentativi di scoraggiare il lavoro fuori orario si rivolgono contro loro stessi, perché i millennial li leggono non come permesso di smettere di lavorare, ma come un mezzo per distinguersi ulteriormente essendo al contrario disponibili.

«Siamo incoraggiati a strategie e schemi per trovare luoghi, tempi e ruoli in cui possiamo essere effettivamente messi al lavoro», scrive Harris, l’autore di Kids These Days. «L’efficienza è il nostro scopo esistenziale, e siamo una generazione di strumenti finemente calibrati, fabbricati fin dallo stato embrionale per essere agili, feroci macchine di produzione».

Ma come sottolinea la sociologa Arne L. Kalleberg, questa efficienza avrebbe dovuto darci più sicurezza sul posto di lavoro, em>più salario, forse anche più tempo libero. In breve, posti di lavoro migliori.

Tuttavia, più lavoriamo, più efficienti ci siamo dimostrati, peggiori diventano i nostri lavori: salario inferiore, benefici peggiori, meno stabilità nel lavoro. La nostra efficienza non ha contrastato la stagnazione dei salari; la nostra affidabilità non ci ha reso più indispensabili. Se mai, la nostra dedizione al lavoro, non importa quanto fosse misto a sfruttamento, ha semplicemente incoraggiato e facilitato altri a sfruttarci. Ci adattiamo ad aziende che ci maltrattano perché non vediamo altra possibilità. Non la lasciamo. Razionalizziamo che non ci stiamo impegnando abbastanza. E ci troviamo un secondo lavoretto.

Tutta questa ottimizzazione – da bambini, al college, in rete – culmina nella condizione dominante dei millennial, indipendentemente dalla classe, dalla razza o dal luogo: il burn out. Il burn out è stato definito per la prima volta in termini di diagnosi psicologica nel 1974, applicato dallo psicologo Herbert Freudenberger a casi di «collasso fisico o mentale causato da superlavoro o stress». Il burn out fa parte di una categoria sostanzialmente diversa da esaurimento, sebbene sia correlato. Esaurimento significa arrivare al punto in cui non puoi andare oltre; burn out significa raggiungere quel punto e spingersi oltre, che sia per giorni o per settimane o per anni.

Quel che è peggio, la sensazione di realizzazione che arriva dopo un compito estenuante – passare gli esami di fine anno! finire quell’enorme progetto di lavoro! – non arriva mai. «L’esaurimento sperimentato nel burn out combina l’agognare intensamente quello stato di appagamento con il senso tormentoso che non lo si può raggiungere, che c’è sempre qualche domanda o ansia o distrazione che non può essere messa a tacere”, scrive Josh Cohen, uno psicoanalista specializzato in burn out. «Ti senti in burn out quando hai esaurito tutte le tue risorse interne, ma non puoi liberarti dalla tensione nervosa ad andare avanti lo stesso».

Quando scrive del burn out, Cohen è attento a far notare che ci sono dei precedenti; la «malinconica stanchezza del mondo», così la definisce, è annotata nel libro dell’Ecclesiaste, diagnosticata da Ippocrate, ed endemica nel Rinascimento, un sintomo di smarrimento rispetto alla sensazione di «cambiamento incessante». Alla fine del 1800, la nevrastenia o esaurimento nervoso, colpiva pazienti abbattuti a terra dal «ritmo e dalla tensione della vita industriale moderna». Il burn out si differenzia per intensità e per diffusione: non è una malattia sperimentata da relativamente pochi che segnala le dimensioni più oscure del cambiamento ma, in maniera crescente, e in particolare tra i millennial, è la condizione del mondo contemporaneo.

Le persone che tengono in piedi in maniera traballante un lavoro da commessi con turni imprevedibili mentre fanno i tassisti per Uber e si devono anche occupare dei figli sono in burn out. I lavoratori delle start up che godono di catering aziendale alla moda, servizi di lavanderia gratuiti e viaggiano per settanta minuti per andare al lavoro sono in burn out. Gli accademici che insegnano in quattro corsi facoltativi e sopravvivono con l’assistenza sociale mentre tentano di pubblicare una ricerca che gli faccia agguantare quell’ultima possibilità di una cattedra strutturata sono in burn out. Gli artisti grafici freelance che lavorano secondo i propri tempi senza assistenza sanitaria o senza ferie sono in burn out.

Uno dei modi per pensare ai meccanismi del burn out dei millenial è guardare da vicino i vari oggetti e industrie che si suppone che la la nostra generazione abbia ucciso. Abbiamo ucciso i diamanti perché ci sposiamo più tardi (o mai), e se o quando lo facciamo, è raro che uno dei partner abbia la stabilità finanziaria per poter accantonare i tradizionali due mesi di salario per un anello di fidanzamento con diamante. Stiamo uccidendo gli oggetti d’antiquariato, scegliendo invece un arredamento rapido – non perché odiamo i vecchi oggetti dei nostri nonni, ma perché dobbiamo cercarci un’occupazione stabile in tutto il paese, e trascinarsi dietro vecchi mobili e fragili porcellane costa denaro che non abbiamo. Abbiamo scambiato i pranzi informali a tavola (Applebee’s, TGI Fridays [catene di ristoranti informali ma con l’aria chic, NdRufus) con quelli da asporto o in piedi ma di qualità (Chipotle e compagnia) perché se dobbiamo pagare per qualcosa, dev’essere un’esperienza per cui vale la pena di fare la fila (Cronuts! BBQ di fama mondiale! Momofuku!) o di un’efficienza assoluta.

Persino le tendenze che i millennial hanno reso popolari – come l’athleisure [l’uso di abbigliamento sportivo per il tempo libero e le occasioni informali, da athletics, “atletica”, e leisure, “tempo libero” ma anche “a proprio agio”, i millennial evidentemente non conoscono i ragazzini cagliaritani della mia epoca e i ceffi in tuta Adidas di tutti i quartieri malfamati d’Italia, NdRufus] – parlano della nostra auto-ottimizzazione. I legging potrebbero sembrare sciatti a tua madre, ma sono efficienti: puoi passare senza soluzione di continuità dalla palestra a una riunione su Skype ad andare a prendere i bambini a scuola. Usiamo Fresh Direct e Amazon perché il tempo che risparmiamo ci consente di lavorare di più.

Questo è il motivo per cui la critica fondamentale ai millennial – che siamo pigri e privilegiati – è così frustrante: ci diamo così tanto da fare che abbiamo capito come evitare di sprecare tempo per mangiare e siamo definiti privilegiati se chiediamo un equo compenso e benefici come il telelavoro (in modo che possiamo vivere in città più abbordabili economicamente), assistenza sanitaria adeguata, o contributi previdenziali (così possiamo teoricamente smettere di lavorare in un qualche momento prima del giorno in cui moriamo). Ci chiamano lamentosi perché diciamo francamente che lavoriamo tanto o quanto siamo esausti. Poiché il lavoro oltre il limite per meno soldi non è sempre visibile – perché cercare lavoro ora significa pescare a strascico su LinkedIn, o perché fare gli straordinari ora significa rispondere alle mail a letto – l’entità del nostro lavoro è spesso ignorata o degradata.

La cosa essenziale del lavoro americano, dopo tutto, è che siamo addestrati a cancellarlo. L’ansia è medicalizzata; il burn out viene trattato con una terapia psicanalitica che viene lentamente normalizzata e tuttavia ancora sottilmente stigmatizzata (il tempo in terapia, dopo tutto, è tempo in cui potresti lavorare). Nessuno avrebbe detto a mia nonna che montare il burro o fare il bucato a mano non era lavoro. Ma pianificare una settimana di pasti sani per una famiglia di quattro persone, mettere insieme la lista della spesa, trovare il tempo per andare a fare la spesa e poi preparare e pulire dopo quei pasti, mentre si tiene in piedi un lavoro a tempo pieno? Questa è solo l’essere madri di famiglia, non il lavoro.

Il burn out dei millenial spesso funziona in modo diverso per le donne, e in particolare le donne etero con famiglia. Parte di questo ha a che fare con ciò che è noto come il secondo turno – l’idea che le donne che si sono inserite nel mercato del lavoro prima lavorano a tempo pieno e poi tornano a casa e fanno anche il lavoro di una casalinga (un recente studio ha rilevato che le madri che lavorano passano altrettanto tempo a prendersi cura dei propri figli di quanto ne passavano le madri casalinghe del 1975). Si potrebbe pensare che quando le donne lavorano, il lavoro domestico diminuisca o si divida tra i due partner. Ma la sociologa Judy Wajcman ha scoperto che nelle coppie eterosessuali, questo semplicemente non è il caso: nel complesso il lavoro domestico diminuisce, ma quel lavoro ricade ancora largamente sulla donna.

La fatica che alla fine causa il burn out non è solo quella legata a mettere via i piatti o piegare il bucato – compiti che possono essere prontamente distribuiti tra il resto della famiglia. Ha più a che fare con quello che la vignettista francese Emma chiama il carico mentale o quello scenario in cui una persona della famiglia – spesso una donna – assume un ruolo del genere di “manager del progetto gestione casa”. Il manager non si limita a fare le faccende domestiche; devono tenere in pugno l’agenda dettagliata dell’intera famiglia. Si ricordano di prendere la carta igienica perché si esaurirà fra quattro giorni. Sono i responsabili finali della salute della famiglia, della manutenzione della casa e dei corpi stessi, di sostenere la vita sessuale, coltivare un legame emotivo con i propri figli, supervisionare le cure dei genitori anziani, assicurarsi che le bollette siano pagate e che i vicini siano salutati e qualcuno sia a casa per l’operaio e i biglietti di auguri siano impostati e le vacanze siano programmate con sei mesi di anticipo e le miglia aeree non scadano e il cane venga portato fuori regolarmente.

Molte donne mi hanno detto che leggere il fumetto di Emma, ​​che è diventato virale più volte, le ha fatte piangere: non avevano mai visto il loro tipo di lavoro anche solo descritto, per non dire riconosciuto. E per le millennial, questo lavoro domestico dovrebbe ora far quadrare un numero infinito di parametri aspirazionali: le uscite dovrebbero essere esperienze, il cibo dovrebbe essere sano e fatto in casa e divertente, i corpi dovrebbero essere scolpiti, le rughe dovrebbero essere ridotte al minimo, i vestiti dovrebbero essere carini e alla moda, il sonno dovrebbe essere regolato, le relazioni dovrebbero essere sane, le notizie dovrebbero essere lette e analizzate, i bambini dovrebbero essere curati e coltivati. Essere genitori e millennial è, per dirla col New York Times, un impegno implacabile.

I media che ci circondano – sia social che mainstream, dal nuovo programma su Netflix di Marie Kondo all’economia degli stili di vita proposti dagli influencer – ci dicono che i nostri spazi personali dovrebbero essere ottimizzati esattamente come il nostro sé e la carriera. Il risultato finale non è semplicemente l’esaurimento fisico, ma un burn out avvolgente che ci segue a casa e poi di nuovo fuori. La prescrizione più comune è «prenditi cura di te stesso». Fatti una maschera di bellezza! Vai a lezione di yoga! Usa la tua app per la meditazione! Ma gran parte della cura di sé non è per niente cura: è un’industria da 11 miliardi di dollari il cui obiettivo finale non è quello di alleviare il ciclo del burn out, ma di fornire ulteriori mezzi di auto-ottimizzazione. Almeno nella sua iterazione contemporanea, mercificata, la cura di sé non è una soluzione; è estenuante.

«Il moderno millennial, nella maggior parte dei casi, vede l’adultità come una serie di azioni, in contrapposizione a uno stato dell’ essere», spiega un articolo di Elite Daily. «L’essere adulti diventa quindi un verbo». Adultizzare vuol dire completare la lista delle cose da fare – ma tutto va sulla lista e l’elenco non finisce mai. «Mi sto davvero sforzando di trovare la magia del Natale quest’anno», ha scritto una donna su un gruppo su Facebook incentrato sulla cura di sé. «Ho due bambini piccoli (2 e 6 mesi) e, anche se ci siamo divertiti a leggere i libri di Natale, cantare le canzoni, passeggiare per il quartiere per guardare le luci, mi sembra sia solo un elenco di cose da fare sovrapposta a una lista di cose da fare già opprimente di suo. Mi sento così esaurita. Commiserazione o consigli?».

Questa è una delle dimensioni più inafferrabili e frustranti del burn out: prende le cose che dovrebbero essere piacevoli e le schematizza in una lista di compiti, mischiati ad altri obblighi che dovrebbero essere facilmente o obbligatoriamente completati. Il risultato finale è che tutto, dai festeggiamenti per il matrimonio alla registrazione al voto, si tinge di risentimento, ansia e tentativi di fuga. Forse la mia incapacità di far affilare i coltelli ha meno a che fare con l’essere pigri e più con l’essere stata troppo brava, troppo a lungo, a essere una millennial.

Ci sono alcuni modi per esaminre questo problema originale della paralisi da commissioni. Molti dei compiti che i millennial trovano paralizzanti sono quelli che sono impossibili da ottimizzare in termini di efficienza, sia perché rimangono ostinatamente analogici (l’ufficio postale) o perché le aziende si sono ottimizzate a loro volta, e hanno ottimizzato la loro forza lavoro, in modo da rendere l’esperienza la più ardua possibile l’utente (qualsiasi cosa abbia a che fare con le assicurazioni, i conti da pagare o presentare un reclamo). A volte, le inefficienze fanno parte del punto: più è difficile presentare una richiesta di rimborso, meno è probabile che tu lo faccia. Lo stesso vale per le merci in restituzione.

Altri compiti diventano difficili a causa delle troppe opzioni e di quella che viene definita stanchezza decisionale. Ho fatto così tanti traslochi, a causa del mio percorso professionale, e ho sempre odiato il processo di ricerca di medici di famiglia, dentisti e dermatologi. Trovare un medico – e non solo un medico, ma uno che accetterà la tua assicurazione, che accetta nuovi pazienti – potrebbe sembrare un compito facile nell’era di Zocdoc [una app di recensioni di medici, NdRufus], ma la vastità delle opzioni può essere paralizzante senza le raccomandazioni di amici e famiglia, che scarseggiano quando ti trasferisci in una città nuova di zecca.

Altri compiti sono, beh, noiosi. Li ho fatti troppe volte. Il guadagno dal completarli è troppo piccolo. La noia con la monotonia del lavoro è solitamente associata a lavori fisici e/o da catena di montaggio, ma è ampiamente diffusa tra i lavoratori della conoscenza. Come evidenzia Caroline Beaton, che ha scritto esaustivamente sui millennial e sul lavoro, l’ascesa del settore della conoscenza ha semplicemente «cambiato il mezzo di trasmissione della monotonia dai macchinari pesanti alla tecnologia digitale. … Diveniamo assuefatti ai compiti ad alta intensità ma prevedibili della forza lavoro moderna. Poiché gli stimoli non cambiano, cessiamo di essere stimolati. La conseguenza è duplice. Primo, come una specie di tortura dell’acqua cinese, ogni cosa identica diventa sempre più dolorosa. Per difenderci, diventiamo sempre meno coinvolti».

Il mio rifiuto di rispondere a un gentile messaggio diretto su Facebook è quindi sintomatico dell’enorme numero di cose che richiedono per la mia attenzione sulla rete: inviti a leggere un articolo, inviti a promuovere il mio stesso lavoro, inviti a mettermi in gioco con arguzia o a difendermi dai troll o a mettere mi piace da parte di qualche genitore per la foto del loro bambino.

Per essere chiari, nessuna di queste spiegazioni è, a mio avviso, assolutoria. Non sembrano ragioni serie o razionali per evitare di fare cose che so, in astratto, di volere o dover fare. Ma le decisioni stupide e illogiche sono un sintomo del burn out. Ci comportiamo in maniera autodistruttiva o ci rifugiamo nella negazione come un modo per scendere dalla girandola infinita del nostro elenco di cose da fare. Questo aiuta a spiegare una delle lamentele sulle abitudini lavorative dei millennial: si presentano tardi, saltano i turni, si passano sul posto di lavoro. Alcune persone che si comportano in questo modo possono, infatti, semplicemente non sapere come metterci la testa e lavorare. Ma è molto più probabile che siano cattivi lavoratori semplicemente a causa di quanto lavoro svolgono – specialmente quando è fatto in un contesto di precarietà finanziaria.

Negli ultimi anni, nuove ricerche scientifiche hanno dimostrato il «pesante carico cognitivo» per coloro che sono vivono in situazioni di insicurezza finanziaria. Vivere in povertà è comparabile a perdere tredici punti di QI. Milioni di millennial americani vivono in povertà; milioni di altre persone sono sul limite, tirando avanti giusto a malapena, spesso facendo lavori precari, senza che avanzi nulla per quel tipo di rete di salvataggio che potrebbe alleggerire quel carico cognitivo. Essere poveri significa avere pochissima larghezza di banda mentale per prendere decisioni, buone o meno – come genitore, come lavoratore, come partner, come cittadino. Più le nostre vite sono stabili, più è probabile che prendiamo decisioni che le rendano ancora più stabili.

Ma la stabilità non è una parola che usiamo per descrivere la vita americana contemporanea. E a seconda della religione, della condizione di immigrato, dell’etnia e dell’identità sessuale, è probabile che l’elezione di Donald Trump abbia solo reso il futuro di ciascuno, la sicurezza e l’occupabilità meno stabili. L’assistenza sanitaria e la copertura assicurativa di condizioni sanitarie preesistenti sono apparentemente sempre in discussione e/o in pericolo, così come i diritti riproduttivi delle donne. La guerra con la Corea del Nord incombe. Non abbiamo mai compreso i social e gli smartphone come più tossici e più indispensabili. La nostra principale preoccupazione per l’incredibile volatilità del mercato azionario è il modo con cui i suoi capricci influenzano il nostro posto di lavoro giorno dopo giorno. Il pianeta sta morendo. La democrazia è sotto grave minaccia. Gli adulti americani riferiscono di essere per il 39% più ansiosi di un anno fa, e cosa è l’ansia se non la condizione di provare a vivere in queste condizioni?

Gli esperti passano molto tempo a dire: «Questo non è normale», ma l’unico modo per noi di sopravvivere, giorno dopo giorno, è normalizzare gli eventi, le minacce, la raffica di informazioni, i costi, le attese riposte in noi. Il burn out non è un posto da visitare e da cui tornare; è la nostra residenza permanente.

Nei suoi scritti sul burn out, lo psicoanalista Cohen descrive un cliente che è venuto da lui con un burn out: era il millennial bambino per antonomasia, ottimizzato per una performance perfetta, che è andata a bun fine quando ha ottenuto il suo lavoro in banca per occuparsi di transazioni finanziarie ad alto livello. Aveva fatto tutto nel modo giusto, e continuava a fare tutto nel modo giusto nel suo lavoro. Una mattina si è svegliato, ha spento la sveglia, si è girato dall’altra parte e si è rifiutato di andare al lavoro. Non è andato a lavorare mai più. Era «incuriosito di accorgersi che l’essere stato licenziato non lo infastidiva».

Nella versione cinematografica di questa storia, quest’uomo si trasferisce su un’isola per riscoprire la vita buona, o capisce che ama intagliare il legno e apre un negozio. Ma questo è il tipo di soluzione illusoria che rende il burn out dei millennial così pervasivo. Non sistemi il ​​burn out andando in vacanza. Non lo sistemi tramite trucchetti [nell’orginale life hacks, come se ci fossero tecniche che permettono di hackerare la vita, impadronirsene e farne quel che si vuole; l’ampia letteratura sui ]ife hacks è una sottosezione di quella oceanica sull’autoapprendimento e l’autoaiuto, tutta mercificazione, come nota l’autrice, NdRufus], come la casella di posta zero [una minch… filosofia di uso dell’e-mail che mira a avere sempre la casella della posta in arrivo vuota, NdRufus], utilizzare un’app per la meditazione per cinque minuti al mattino, facre la preparazione del pasto domenicale con tutta l’intera famiglia o iniziare un diario organizzato per punti-elenco. Non lo sistemi leggendo un libro su come defanc***zzarti la mente. Non lo sistemi andando in vacanza, o con un libro da colorare per adulti, o dedicandoti a fare biscotti per curare l’ansia, o con la Tecnica del Pomodoro [una tecnica di suddivisione del tempo, inventata negli anni ’80 da un italonamericano di origini napoletane, Francesco Cirillo, NdRufus], o con il cazzo di porridge freddo a mezzanotte.

Il problema con il burn out olistico, permanente, è che non c’è soluzione. Non puoi ottimizzarlo per farlo finire più velocemente. Non puoi accorgerti che sta arrivando come il raffreddore e iniziare a prendere la versione anti-burn out di Airborne [una specie di mix di vitamine e altri integratori propagandato come rimedio per il raffreddore; vedo peraltro sulla rete che la sua efficacia è controversa, per usare un eufemismo, NdRufus]. Il modo migliore per curarlo è riconoscerlo per quello che è – non un disturbo passeggero, ma una malattia cronica – e capire le sue radici e i suoi parametri. Ecco perché le persone con cui ho parlato hanno avuto un tale senso di sollievo nel leggere il fumetto sul carico mentale, e perché leggere il libro di Harris per me è stato così catartico: non sono scuse per come ci comportiamo e ci sentiamo noi. Descrivono semplicemente quei sentimenti e comportamenti – e i più vasti sistemi di capitalismo e patriarcato che vi contribuiscono – con precisione.

Descrivere il burn out dei millennial con precisione significa riconoscere la molteplicità della nostra realtà vissuta – che non siamo solo diplomati, genitori, o lavoratori della conoscenza, ma tutto questo insieme – mentre ne descrive lo status quo. Siamo profondamente indebitati, lavoriamo più ore e in più posti di lavoro per meno retribuzioni e meno sicurezza, dibattendoci per raggiungere gli stessi standard di vita dei nostri genitori, agendo nella precarietà psicologica e fisica, il tutto mentre ci viene detto che se solo lavorassimo di più la meritocrazia prevarrebbe e inizieremmo a prosperare. La carota che ciondola davanti a noi è il sogno che la lista delle cose da fare finirà, o almeno diventerà molto più gestibile.

Ma l’azione individuale non è abbastanza. Le scelte personali da sole non impediranno al pianeta di morire o impedire a Facebook di continuare a violare la nostra privacy. Per quello c’è bisogno di un cambio di paradigma. Il che aiuta a spiegare perché così tanti millennial si identificano sempre più con il socialismo democratico e stanno scegliendo di appoggiare i sindacati: stiamo iniziando a capire cosa ci affligge, e non è qualcosa che un ossigeno facciale [basta, mi arrendo: c’è un limite alle cretinate da millennial che posso spiegare in nota in un solo articolo, NdRufus] o una scrivania con tapis roulant incorporato [esiste davvero, NdRufus] possa risolvere.

Fino a un rovesciamento rivoluzionario del sistema capitalista, o al suo posto, come possiamo sperare di attenuare o prevenire – anziché tamponarlo solo temporaneamente – il burn out? Il cambiamento potrebbe derivare da nuove leggi, da un’azione collettiva o da una continua azione femminista, ma è follia immaginare che venga dalle corporazioni stesse. La nostra capacità di bruciare e continuare a lavorare è il nostro valore più grande.

Mentre scrivevo questo pezzo stavo organizzando un trasloco, pianificando un viaggio, andando a ritirare ricette mediche, portando a spasso il cane, cercando di fare attività fisica, preparando la cena, tentare di partecipare a conversazioni di lavoro su Slack, postando foto sui social e leggere le notizie. Alle sei del mattino mi svegliavo per scrivere, imballavo scatole in pausa pranzo, spostavo pile di legna a ora di cena, e cadevo addormentata alle nove. Ero sul tapis roulant della lista delle cose da fare: una dannata cosa dopo l’altra. Ma mentre finisco questo pezzo, provo qualcosa che non ho provato da molto tempo: catarsi. Mi sento benissimo. Sento qualcosa – qualcosa che non sentivo davvero da molto tempo dopo avere portato a compimento un compito.

Ci sono ancora cose da affrontare dopo di questa. Ma per la prima volta, vedo me stessa, i parametri del mio lavoro e le cause del mio burn out con chiarezza. E non sembra l’abisso. Non sembra senza speranza. Non è un problema che posso risolvere, ma è una realtà che posso ammettere, un paradigma attraverso il quale posso comprendere le mie azioni.

Nei suoi scritti sui senzatetto, lo psicologo sociale Devon Price ha affermato che la pigrizia, ​​almeno nel modo in cui la maggior parte di noi generalmente la concepisce, semplicemente non esiste. «Se il comportamento di una persona non sembra aver senso», scrive, «è perché non si coglie una parte del loro contesto. È così semplice». Il mio comportamento non aveva senso per me perché mi mancava parte del mio contesto: burn out. Mi vergognavo troppo di ammettere che ne stavo facendo esperienza. Mi ritenevo troppo forte per soccombere. Avevo ridotto la mia definizione di burn out per escludere i miei personali comportamenti e sintomi. Ma mi sbagliavo.

Io penso di avere alcune delle risposte alle specifiche domande che mi hanno fatto iniziare a scrivere questo saggio. Le vostre sono probabilmente in qualche modo o sostanzialmente differenti. Non ho un piano d’azione, se non di essere più onesta con me stessa su ciò che sto e non sto facendo e perché, e di cercare di districarmi dall’idea che tutto ciò che è buono è cattivo e che tutto ciò che è male è buono. Questo non è un compito da completare o una riga su un elenco di cose da fare, o anche una risoluzione del nuovo anno. È un modo di pensare alla vita, e quale gioia e significato possiamo derivare non solo dall’ottimizzarla, ma dal viverla. Che è un altro modo di dire: è il vero lavoro della vita.

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