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Giochi politici

Venerdì, sabato e domenica, ormai dovrebbero saperlo anche le pietre, si è svolta a Cagliari la Global Game Jam.

Sono contentissimo: siamo di fatto la quarta sede organizzatrice italiana, dopo Milano, Torino e Roma e appena appena sopra Pisa, abbiamo fatto un sacco di giochi, siamo stati bene insieme e il panorama dalla terrazza del Lazzaretto era impagabile.

Ma in realtà le considerazioni che ho da fare sulla Jam in quanto manifestazione le lascio al sito dei Fabbricastorie e al gruppo dei partecipanti: qui vorrei invece parlarvi del gioco che abbiamo fatto con la mia squadra, The law (al link lo potete scaricare).

Il tema della Jam era What home means to you, «che cosa vuol dire “casa” per te», dove casa è casa tua, non qualunque casa.

L’idea – forse meglio sarebbe dire l’esigenza – di base è venuta al mio compagno e compare Andrea Salidu: casa è dove si contano le esigenze di tutti.

Però ci siamo arrabattati molto su come farci sopra un gioco, da questa idea, anche perché le prime ipotesi era tutte, curiosamente, calchi involontari di film famosi, che tu cominci a raccontare la storia del gioco e il compagno ti dice: «Scusa, ma questo è quel film…» e tu ti rendi conto che è proprio così e insomma non è bello. Su questi dubbi Andrea è andato a dormirci sopra e io sono rimasto a lavorarci nella notte fra venerdì e sabato, senza troppo successo. Per fortuna che avevo, per intrattenermi, da dare una mano alla linea narrativa di Johnny go home, un gioco triste su un disertore americano della offensiva della Mosa-Ardenne che vuole solo andare a casa (di Marco Cillocu, un quasi Fabbricastorie onorario).

E poi la mattina ho fatto un salto a casa per un’oretta di sonno veloce e fare colazione con Maria Bonaria e sotto la doccia mi è venuta un’idea, l’ho inseguita disperatamente e, improvvisamente, il gioco era là, perfetto.

Di ritorno al Lazzaretto ho aspettato impaziente che Andrea arrivasse, l’ho portato a prendersi un caffè sulla terrazza e gli ho raccontato la storia, esattamente come la vive il giocatore.

Andrea mi ha guardato fisso mezzo minuto e io pensavo: «Vabbe’, fa schifo», e poi invece mi ha detto: «È bellissima».

Ora, naturalmente la realizzazione è un’altra cosa. Probabilmente non corrisponde del tutto alle potenzialità dell’idea. Probabilmente noi siamo più benevoli nei nostri stessi confronti di chi giocherà il gioco senza conoscerci. Probabilmente lo giocherete e non vi sembrerà proprio bellissimo. Però vi garantisco che in quel momento, sulla terrazza assolata, l’Idea stava davanti a noi, vivida e brillante di energia, come un cazzotto sul naso del mondo.

È, fra l’altro, un gioco piuttosto diverso dai miei soliti, come è giusto che sia alla Jam, dove dopotutto ci si deve sforzare di collaborare, sperimentare e innovare. È tutto giocato sulla sorpresa, perciò non posso spiegare, però insomma, già dicendo così un po’ si spiega: di solito io lascio il giocatore molto libero, qui invece la storia e l’interazione lavorano verso un esito molto diverso.

È anche un gioco molto politico, direttamente politico, e anche questo per me è un po’ una novità: non facevo un gioco così politico dai tempi di Negoziato di pace e certamente non ne avevo mai fatto uno così violentemente diretto, avendo sempre preferito sentieri indiretti per dire le cose a cui tengo: qui, invece, giù martellate (e anzi se il gioco ha un difetto è che non è abbastanza diretto: nella versione che ho raccontato ad Andrea il linguaggio era scurrile e furibondo, poi nella scrittura sono diventato molto più letterario).

Comunque, finito il caffè ci siamo messi al lavoro. Partendo dalla mia storia abbiamo messo a punto le meccaniche e lo svolgimento complessivo del gioco. Dal punto di vista della produzione, io mi sono messo ai testi mentre Andrea componeva e articolava le scene. Stefano Puddu ci ha fatto i disegni, bellissimi, alcuni dei quali potete vedere qui, e Davide Melis la musica, sempre più incalzante. The law è di questi quattro, tutti insieme.

Andrea e io ci stiamo già continuando a lavorare: vogliamo tradurlo in italiano (attualmente è in inglese), farlo girare non solo sotto Mac ma sotto Windows e anche Android e trovare una piattaforma dove metterlo a disposizione. Ci sono anche un po’ di errorini da correggere, qui e là.

È usuale, credo, provare a tirare le somme in questo tipo di post mortem con i soliti elenchi di cinque cose riuscite e cinque meno riuscite. Lo faccio anch’io, mischiando un po’ le osservazioni sulla Jam e quelle sul gioco in sé.

  1. Mi viene da dire che questo è il primo videogame che ho fatto. In realtà non è vero: ho fatto pezzi di Bronze&Steel per Ichnuseum, i vecchi testi dei gialli del professor Marras e altre cose. Qui però ho sperimentato per la prima volta una dimensione autoriale completa, forse perché ho seguito davvero tutte le fasi del progetto. Questo anche perché…
  2. … lavorare in squadra ti fa imparare moltissimo e ti fa entrare in dimensioni sconosciute. Ho capito davvero, per esempio, una cosa che sinora avevo solo enunciato un po’ a pappagallo, e cioè che anche se uno fa l’autore o il disegnatore è bene che sappia come funziona il programma che si usa per fare il gioco: perché questo permette un tipo di interazione e di collaborazione che altrimenti è molto più faticoso.
  3. La Jam ti permette di innovare e sperimentare e l’opportunità va colta. Ho fatto un gioco con un approccio al rapporto fra autore e giocatore esattamente opposto al mio solito, e ne sono contento. Poi riprenderò a fare i giochi con la mia solita filosofia, magari, ma intanto è stato interessante e arricchente provare a guardare il mondo dall’altra parte.
  4. Fare un gioco non richiede strumenti molto complicati. Drive (o simili) e strumenti di collaborazione facilmente disponibili permettono interazioni di squadra veloci, efficaci ed economiche. Certo, devi saper usare i tool di sviluppo, ma molti sono meno complicati di quel che sembra.
  5. Lavorare bene richiede tempo e dedizione e però ti ricompensa. Tradizionalmente alla Jam scrivo un gioco di ruolo senza master e avrei voluto farlo anche quest’anno. avevo calcolato che avendo finito i testi di The law più o meno sabato notte avrei avuto tutta domenica per fare un secondo gioco solo mio: dopo tutto il mio specifico per The law l’avevo già fatto. Poi ho preferito continuare a seguire lo sviluppo del progetto fino in fondo e retrospettivamente sono contentissimo, perché sento il gioco mio in una maniera che altrimenti non sentirei, e perché è stato da quel momento in poi che ho imparato moltissimo.
  6. Non loderemo mai abbastanza la mano che ci hanno dato Stefano e Davide. Colonna sonora e musica rendono il gioco semplicemente un’altra cosa.
  1. Sugli aspetti più negativi so meno bene cosa dire. Certamente fare un gioco richiede disciplina: per vari motivi noi abbiamo perso tempo nella fase preparatoria, poi abbiamo lavorato molto bene il sabato pomeriggio fino a notte inoltrata, poi invece la domenica abbiamo rallentato perché ci sembrava che il gioco fosse ormai praticamente finito e invece alla stretta finale ci siamo resi conto che ci mancava il tempo per le ultime rifiniture, per organizzare anche la portabilità sotto Windows e magari per includere nel pacchetto in distribuzione qualche cosina in più, fossero anche solo degli screenshot.
  2. Alla fine eravamo contenti ma esausti: magari prevedere meglio i tempi di pausa e di riposo sarebbe stato meglio.
  3. Di fatto, io non so programmare. Per quanto avessi capito come funzionava il programma e fossi in grado di seguire quel che faceva Andrea non potevo aiutarlo prendendo in carico magari dei pezzettini secondari di lavoro, per sveltire le cose.
  4. Io avevo un PC con Windows, Andrea con Mac. Non è esattamente il massimo, anche se tutti e due avevamo installato Unity (ah, ecco: evitate di dovervi installare programmi e aggiornamenti nel momento di picco dell’attività).
  5. Nice to have è un grande aiuto. Bisogna ricordarselo e fare delle scelte, altrimenti alla fine c’è una correzione più importante e ti sta finendo il tempo.
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