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Katia è morta

La prima volta che sono andato al supermercato

La prima volta che sono andato al supermercato, ci ho trovato un soldato che molestava una ragazza.

Ero di fretta, alla ricerca di cibo, e così sono entrato senza neanche accorgermi. Quando mi hanno visto la ragazza è fuggita, io che non capivo devo aver fatto un gesto sbagliato e il soldato, beh, il soldato mi ha sparato.

La seconda volta, prima di entrare sono stato attento e ho spiato da dietro l’angolo. Quando ho visto che lui spingeva la ragazza in un angolo sono entrato facendo la faccia cattiva. Ho pensato: «Beh, io dico: «Ehi!», quello si distrae, lei fugge e poi anche io me la batto». Solo che il soldato non ha fatto una piega e mentre io facevo tutta la scena mi ha sparato. Di nuovo.

La terza volta mi sono portato un piede di porco che usiamo per scassinare le case sfitte. Gli sono saltato addosso da dietro e l’ho ammazzato io, prima di ogni altra cosa. Alla fine lui chiedeva pietà, e io l’ho picchiato più forte.

La quarta volta mi sono portato dietro un’ascia, per fare prima. Poi ho visto che funziona anche la pala che usiamo per rimuovere le macerie dalle case bombardate.

This war of mine (11 bit Studios, Polonia 2014)

Come ho raccontato qualche giorno fa, da poco le ragazzine hanno visto sulla mia pagina di Steam un’immagine come quella che sta in cima a questo articolo: da allora per loro This war of mine è la storia di quella ragazza che era morta e gli piacerebbe tanto giocarci. Io, stimolato dalla loro curiosità, l’ho ripreso in mano in questi giorni e mi è venuta voglia di raccontarvelo.

Non è una recensione asettica: sono molto appassionato di Ths war of mine e l’ho infilo dappertutto. Per il dossier di Mosaico di pace ho anche tradotto una bella intervista del giornalista inglese Dominic Preston a Pavel Miechowski, presidente dello studio e responsabile capo del progetto.

Tecnicamente This war of mine è un gioco di sopravvivenza: appartiene cioè a quel filone di giochi nel quale un protagonista si trova disperso, isolato o comunque in una condizione di abbandono (che so, sperduto al Polo, unico rimasto dopo l’apocalisse nucleare, naufrago nello spazio, o esiliato in un mondo horror): il personaggio va in giro, esplora il mondo nel quale si è ritrovato, recupera degli oggetti coi quali magari si fabbrica degli strumenti che usa per procurarsi dell’altro e pian piano ricostruisce un minimo di normalità o addirittura di comodità.

Quello che caratterizza This war of mine è la dimensione antieroistica: ambientato in una città assediata che ricorda tanto Sarajevo (ma gli sviluppatori scrivendo il gioco avevano in mente i racconti dei nonni sulla seconda guerra mondiale a Varsavia) mette il giocatore alla guida di un piccolo gruppo di civili bloccati in un palazzo fatiscente dentro una città contesa fra esercito regolare e ribelli. Ho detto civili: e quindi la possibilità no puramente di sopravvivere a oltranza ma di trionfare – che in molti giochi di sopravvivenza è presente fra le righe, qui semplicemente non c’è.

Il gioco è articolato in un ciclo giorno-notte molto rigido. Durante il giorno la presenza di cecchini impedisce di uscire e quindi si sta chiusi nel palazzo – si cucina, ci si prende cura delle persone, si dorme e si usano le poche risorse a disposizione per cercare di fabbricarsi il minimo necessario: dei letti, un fornello, un filtro per potabilizzare l’acqua piovana, una radiolina per sentire come va la guerra…. Durante la notte, invece, uno dei rifugiati dovrà uscire per andare a rovistare fra le macerie e cercare di recuperare qualcosa di utile, mentre gli altri dormiranno o faranno la guardia.

I luoghi dove andare sono prefissati: ognuno permetterà di procurarsi cose più o meno utili – in generale o rispetto alle esigenze del momento del gruppo: poco cibo, un ammalato, manca combustibile per la stufa – e, come ho raccontato all’inizio, può portare all’incontro con altri rifugiati, con persone che vivono lì, con banditi, o infine con i militari. Altre persone con cui interagire, per la verità, bussano alla nostra porta di giorno: a parte Franko, il borsaro nero che fa il giro dei palazzi ogni tre o quattro giorni in cerca di cose da vendere o scambiare, capita che vengano dei vicini a chiedere aiuto o, più raramente, a offrirlo.

This war of mine è un gioco, essenzialmente, sulle scelte morali che si fanno in situazioni estreme. A parte la storia del supermercato, spessissimo capita che il gioco ci avverta che cose che ci sarebbero utilissime – talvolta indispensabili – non siano abbandonate ma di proprietà di qualcuno. Rubarle a costo di condannare qualcun altro alla fame, alla malattia, alla morte? Non ci sono soluzioni facili. E anche all’interno del gruppo il giocatore può essere costretto a scelte difficili: usare la preziosa ricognizione notturna per andare a cercare medicine chi si è ammalato oppure scegliere un’altra destinazione per procurarsi altro, più utile al gruppo nel suo insieme?

Il problema è che, rispetto ad altri giochi simili, la precarietà non diminuisce progressivamente man mano che giocatore riesce a organizzarsi, ma si può ripresentare continuamente nonostante le scelte corrette del giocatore: i personaggi possono ammalarsi anche se ben nutriti e tenuti al caldo; di notte, man mano con più frequenza, arrivano disperati disposti ad assaltare in nostro palazzo: e possono toglierci le sudate provviste anche se si è lasciato qualcuno di guardia e si è avuta cura di fortificare l’edificio e qualcuno dei nostri può rimanere ferito nella rapina; oppure ci si può trovare coinvolti involontariamente in improvvisi scoppi di violenza. Da poco stavo esplorando i sotterranei sotto la chiesa di Santa Maria: non avevo intenzione di rubare e sapevo, perché il prete me l’aveva detto, che avrei dovuto stare attento a non disturbare quelli che erano lì accampati; mi muovevo con cautela quando arriva uno che mi fa: «Ehi, cosa fai qui?» e mi aggredisce. A momenti mi linciavano.

Come credo che sappiate, sono sempre interessato alla dimensione narrativa dei giochi, anche – e forse soprattutto – a quella in qualche modo involontaria, cioè quella che non è raccontata direttamente dall’autore del gioco ma che il giocatore si ricostruisce da sé. In This war of mine l’effetto di immedesimazione del giocatore è aiutato anche dalla presenza di spezzoni narrativi inseriti dagli autori: scopriamo man mano il passato dei personaggi che ci sono affidati e nei vari luoghi che visitiamo scopriamo tracce del passaggio di altre persone, tracce che talvolta si ricompongono in storie più compiute e altre volte no: troveremo la tomba di Milosz, per il quale Sara aveva lasciato dei gioielli nascosti fra i cartoni dei libri nello scantinato della pompa di benzina abbandonata; ma non sapremo mai se il ragazzo che ha scritto alla ragazza che l’avrebbe aspettata ogni giorno a una certa ora alla stazione poi l’ha ritrovata: in molti casi forse semplicemente sapere come sono andate a finire le cose richiederebbe di visitare di nuovo quel luogo che noi dopo averlo saccheggiato, non vedremo più.

Ma quello che noto è che la dimensione di immedesimazione, la preoccupazione per i personaggi, porta il giocatore a costruire metanarrazioni proprie. Per esempio, una volta Pavel è andato a cercare qualcosa di utile in una villetta abitata da gente con la doppietta facile. L’hanno visto e gli hanno intimato di andarsene. Ma lui è tornato poco dopo e si è infilato nella cantina. Quelli se ne sono accorti e lui si è allontanato di nuovo: fra l’altro non aveva preso niente che fosse di proprietà privata, si era solo intrufolato pr dare un’occhiata. E invece quelli gli sono andati dietro mentre scappava e l’hanno ammazzato come un cane. La notte dopo Katia ha preso il mitra del soldato del supermercato, è andata in quella casa e li ha ammazzati tutti.

Parentesi: non voglio dare l’impressione che This war of mine sia un gioco di combattimenti: la maggior parte dei giorni non succede niente e di solito si è troppo occupati a sopravvivere per cercare grane. Quello che voglio dire è che il giocatore modifica il gioco per una personale coerenza narrativa: per fare un esempio contrario al precedente, nel caso della chiesa di cui parlavo prima per cavarmela ho tirato fuori il solito mitra. Tutti hanno avuto paura e, qualcuno mi ha implorato pietosamente. Io mi sono sentito malissimo – come se fossi un torturatore – e da quel momento in poi ho evitato di tornarci, anche se dal punto di vista delle meccaniche di gioco avrei potuto, senza conseguenze. Ma mi vergognavo.

Del resto, i personaggi, come detto, sono dei civili che si sono ritrovati in qualcosa di più grande di loro. Non sono strutturalmente adatti alla guerra: non solo perché sono fragili fisicamente, e alla lunga se pensassero di poter andare avanti a forza di rapine e sparacchiamenti finirebbero per avere la peggio, ma anche perché non sono capaci di reggere la violenza moralmente: il loro morale dipende da una combinazione di benessere, salute e capacità di rimanere umani nonostante tutto – i piccoli gesti di buon vicinato, la generosità durante gli incontri notturni. Su qualche furto per il bene del gruppo possono chiudere un occhio, e possono lodare il coraggio di Pavel che accoppa i soldato al supermercato, ma oltre tendenzialmente non si spingeranno, pena il crollo e vere e proprie sindromi da stress post-traumatico: mi è capitato, in maniera simile a quella della villetta, che in una scuola riadattata sede di un gruppo di autodifesa civile Pavel abbia avuto uno scontro a fuoco con un gruppo di sconosciuti: il fatto che avessero i passamontagna mi ha indotto in errore. È tornato a casa ferito gravissimamente, e ha fatto in tempo solo a dire: «Fuori è un inferno, non potete immaginare» Poi si è seduto a fianco alla porta e si è rifiutato di fare qualunque cosa. Katia è andata nel panico (tutto quelsangue!!) e anche lei non ha fatto più nulla: è rimasta nel letto senza muoversi. Bruno si è aggirato fra i due, disperato, ma la situazione era irrisolvibile: è rimasto sveglio la notte, per fare la guardia,e quindi nessuno è uscito a rovistare. Pavle è morto dopo due giorni, Katia non si è più mossa, il cibo è finito e Bruno, che non dormiva da giorni, è uscito disperato: l’unica destinazione con del cibo era l’incrocio dei cecchini.

Va beh, lo dice la parola stessa: incrocio dei cecchini. Potete immaginare com’è finita.

In realtà i personaggi non so tutti uguali: due o tre – il miliziano in fuga, l’avvocatessa altolocata, la ragazza che viene dalla strada – hanno molto più pelo sullo stomaco di altri ma il discorso, complessivamente, non cambia di tanto.

Chiudo questa recensione con una menzione per la grafica, efficacissima come ho cercato di farvi vedere con le immagini che ho inserito, e con le note commerciali: This war of mine costa su Steam circa 19 euro (fino al 3 gennaio in offerta natalizia 5,69, sconto del 70%); su Play la versione per Android costa 11,99 euro. Nel 2018 lo studio ha prodotto un altro gioco, ancora una volta sulle scelte morali ma molto più ambizioso, Frostpunk, che ha ricevuto recensioni molto buone ma che io non ho ancora visto.

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