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Parlare di videogame

Mi sono sempre dimenticato di raccontare che uscirà credo a settembre un dossier che ho curato assieme ai Fabbricastorie sui videogame.

Naturalmente quando uscirà il dossier vi avviserò (così magari vi abbonate alla rivista o la comprate) ma visto che oggi mi sono ricordato volevo condividere con voi alcune impressioni. Non parlerò del dossier specificamente, per quello vi lascio alla lettura quando, appunto, uscirà.

La prima non riguarda tanto i videogame quanto… gli amici. Uno dei motti del gruppo La Pira, per citare un altro dei miei ambienti di riferimento, è: «Nessuno ci ha mai detto di no». Non lo diciamo con orgoglio, ma come una constatazione: abbiamo scoperto che se tu chiedi delle cose alla gente, che sia una relazione a un convegno, una saletta per riunirsi, la collaborazione a un progetto o mille altre cose, questa normalmente ti dice di sì. Spesso anche se sei un perfetto sconosciuto. Qui è stato un po’ lo stesso: per un lavoro totalmente gratis et amore Dei da fare in tempi anche incalzanti ci sono stati due amici che non hanno battuto ciglio. Dice: bella forza, erano tuoi amici. Va bene, ho degli amici fighi, però il discorso non cambia: la gente in generale è più disponibile di quanto raccontino le narrazioni correnti – perlomeno quelli che non hanno grande potere. E per il dossier hanno dato disponibilità anche amiche di amici, gente che non conoscevo alla quale mi sono presentato con un po’ di faccia tosta e con solo la menzione di una conoscenza in comune e perfino un giornalista inglese e un autore di giochi polacco. Nessuno ha detto di no, e mi sembra una cosa notevole da segnalare.

L’altra cosa interessante da segnalare, secondo me, è l’aspetto della sfida culturale. Come si parla dei videogame? Cioè: come si parla di una delle industrie culturali contemporanee più importanti senza cadere nel rischio da una parte della genericità e dall’altra di sembrare quelli che cadono dal pero e pretendono di descrivere come un fenomeno quella che è una realtà consolidata ormai da decine di anni?

Sembra ovvio che si debba uscire da questo tipo di dicotomia, ma in realtà non è così semplice. Pensateci, per esercizio: prendete una rivista – la vostra rivista preferita – che normalmente non parla di videogame e decidete la scaletta di un dossier di cinque articoli su questo argomento. Non è per niente facile, e il rischio di cadere in una delle due trappole citate è piuttosto alto.

Noi, naturalmente, eravamo facilitati dallo scrivere per una rivista specifica, in questo caso di taglio pacifista. È chiaro che rispetto a un rotocalco generico, per dire, una rivista con un suo focus specifico semplifica l’impostazione del lavoro, e però pone anche dei rischi tutti suoi. Per esempio, quello di avere un approccio strumentale, dicendo come si potrebbero usarevideogame per quell’approccio particolare: come se Gardenia si focalizzasse su come insegnare il giardinaggio coi videogame, per esempio, o come se Cucina Italiana li raccomandasse per imparare a memoria le ricette divertendosi. Io credo, ripensando all’esperienza fatta, che si sfugga a questo rischio raccontando ciò che i videogame sono e ciò che i videogame fanno – e chi sono le persone che li fanno – accuratamente evitando di menzionare, se non di passaggio, a cosa servono.

L’altro punto interessante, naturalmente, è che essendoci rivolti prima di tutto agli amici dei Fabbricastorie per forza di cose gli autori degli articoli sono stati persone interne al mondo del gioco e dei videogame, non del mondo pacifista: erano quindi persone che parlavano di se stesse, di ciò in cui credono e di ciò che amano fare; (non) casualmente tutti erano anche attenti ai temi della pace, della giustizia, dell’inclusione sociale, ma non erano stati scelti per quello. Non me ne sono reso conto, all’inizio, ma in realtà è un meccanismo relativamente poco frequente: per esempio nel passato quando riviste legate ai temi dell’educazione, magari cattoliche, hanno dato spazio ai giochi di ruolo o da tavolo normalmente ne hanno parlato persone che si ritenevano prima educatori e poi, magari, anche dei giocatori – e spesso non lo erano neppure, ma avevano sul gioco una riflessione non legata alla pratica ma semplicemente agli studi fatti. Di solito – anche io ho scritto un paio di questi articoli, ai bei vecchi tempi – la preoccupazione di questi lavori era quella di rendere comprensibili i giochi ai lettori, con un vero e proprio sforzo di traduzione di quella esperienza. Ripensando al come è stato concepito e scritto il dossier mi sono reso conto che questo sforzo di traduzione non è stato affidato ai singoli articoli, ma alla scaletta – che volevamo desse un quadro a tutto tondo del rapporto fra videogame recenti e temi come la pace, la guerra, i migranti, l’integrazione, le percezioni culturali – e al modo con la quale ogni articolo richiama gli altri: un procedimento che trovo interessante, ripensandoci.

Naturalmente l’ultima osservazione va lasciata alla constatazione che, anche se parlavamo del rapporto fra videogame e un argomento specifico, non abbiamo fatto altro che grattare la superficie. Si potevano citare millanta altri giochi e scrivere decine di altre pagine: non può essere diversamente, considerata la vastità del mercato, come se si parlasse di cinema e pace oppure di letteratura e culture diverse. Questo naturalmente induce pure alla modestia: si poteva fare in tanti altri modi, alcuni probabilmente migliori, ma soprattutto ricorda quanto sia maturo il settore, cioè quanto i videogame siano oggi un mezzo espressivo capace di parlare di qualunque cosa, un tema che nel dossier ritorna spesso.

Nei video, le pubblicità di tre dei molti giochi dei quali abbiamo parlato. Dei contenuti del dossier, naturalmente, parleremo quando esce, dopo l’estate.

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