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Disertori dello Stato islamico

Mentre ero a casa ammalato ho letto uno dei libri ricevuti in regalo per il mio compleanno, Dawla di Gabriele Del Grande (Mondadori, e 19). Si tratta della sintesi di una lunga ricerca (finanziata, vedo, su produzionidalbasso.com) fatta da Del Grande fra i disertori dello Stato Islamico, cioè fra tutti quei combattenti islamisti che, per un motivo o per l’altro, sono dovuti scappare o hanno comunque abbandonato la lotta. Le tre storie principali: un combattente della prima ora, componente del commando incaricato delle uccisioni in città (poi avrà una carriera piuttosto diversificata, fra incarichi di sicurezza e attività di prima linea), un giordano andato in Siria per scoprire se al-Baghdādī fosse davvero il madhī annunciato dal Profeta (e mal gliene incoglierà) e infine un mezzo criminale che farà carriera nei servizi segreti; attorno a loro una folla di personaggi, che spesso ritornano da angoli visuali diversi attraverso le tre narrazioni. Alternare i racconti dei suoi tre testimoni permette a Del Grande di raccontare in maniera efficace la guerra civile siriana dal suo scoppio in poi mantenendo sempre un angolo visuale diretto; gli eventi immediatamente precedenti sono raccontati attraverso l’esperienza di un detenuto politico (un oppositore della società civile, non un islamista) nel carcere di massima sicurezza di Ṣaydnāyā, nel quale sono racchiusi anche moltissimi che poi saranno fra i protagonisti della storia, e che così sono presentati in maniera indiretta: il giovane Ayham scomparirà dalla storia, i suoi compagni di galera e di rivolta ritorneranno invece più e più volte.

Leggere Dawla non è una passeggiata: è un saggio che si legge come un romanzo appassionante ma più e più volte l’ho dovuto poggiare, fare una pausa di alcune ore o di un giorno e poi riprenderlo dopo avere tirato il fiato. Non è per la complessità della storia o il numero dei personaggi o per le quasi seicento pagine o, infine, per la complicazione della grafia di nomi e luoghi: l’interesse della narrazione fa superare tutte queste cose di slancio.

Il problema è, invece, quello della violenza. Una violenza brutale, inumana, spropositata, che ti afferra alla gola fin dalle prima pagine e non ti lascia più, finché a un certo punto non hai alternative: se vuoi riuscire a respirare un attimo devi poggiare il libro. È chiaro, ovviamente, che stiamo parlando di racconti di guerra e per di più di una guerra civile, cosa che naturalmente dovrebbe indurre il lettore a aspettarsi crudeltà ed efferatezze; ma nella pubblicistica di storia militare che ho letto nulla si avvicina neanche lontanamente ai racconti di Dawla: l’unica cosa forse somigliante sono i racconti dei narcos messicani de Il potere del cane di Don Winslow, dove però le atrocità sono intervallate da lunghi passaggi narrativi; qui si susseguono una dopo l’altra e, anche quando da metà libro circa in poi il passo si fa più pacato, due lunghi capitoli dedicati al massacro degli ezidi e alla schiavizzazione delle loro donne rimettono subito le cose in chiaro.

Il che non vuol dire che il libro sia, semplicemente, il conto della macelleria: la lunga storia iniziale della rivolta del carcere di Ṣaydnāyā assume il tono della ballata epica e il passaggio nel quale per sbarazzarsi del tizio giordano, che hanno dovuto liberare, i suoi carcerieri lo arruolano a sua insaputa in una squadra di martiri suicidi ha tutti i toni del romanzo picaresco (e da solo reggerebbe un film). E così ci sono ugualmente folle di personaggi interessanti, episodi caratteristici, momenti drammatici o commoventi e così via.

Tutto in un brodo di violenza senza pari.

Cose da annotarsi

A parte l’interesse specifico per le varie vicende dei protagonisti e dei comprimari, il libro, essendo una fonte di prima mano, è utile per fare piazza pulita di una serie di precomprensioni e per suggerire una serie di osservazioni sull’oggi e sul futuro.

La prima di queste precomprensioni, che ho visto annunciare a Cagliari anche molto recentemente durante incontri pubblici e presentazioni di libri, è che il regime di Bashshār al-Asad fosse una sorta di benevolo governo dispotico ma illuminato, intento a riformarsi dagli eccessi precedenti dovuti al padre dell’attuale presidente. Basta un’occhiata all’apparato repressivo descritto fin dalle prime pagine per rendersi conto che, semplicemente, non è e non poteva essere così.

La seconda precomprensione, invece, riguarda il presunto carattere non-islamico del Dawla o la sua presunta non aderenza ai principi di un presunto vero Islam, soprattutto in quanto religione di pace, una frase che si è sentita ripetere spesso. Le testimonianze del libro di Del Grande tendono piuttosto a confermare la tesi di un vecchio e ottimo articolo di The Atlantic, del quale raccomando la lettura, che sostanzialmente riconosceva il carattere profondamente religioso dell’ISIS e, soprattutto, la sua legittimità nel definirsi islamico («Come se ci fosse qualcosa come l’Islam! Esso è ciò che i mussulmani fanno, e come interpretano i loro testi», nell’espressione del professor Haykel di Princeton citato nell’articolo). Possiamo parlare di una interpretazione minoritaria all’interno del grande mondo islamico, ma pur sempre una interpretazione che è dentro piuttosto che fuori. E in realtà i racconti del libro tendono a descrivere piuttosto rapporti di continuità con il resto del mondo mussulmano che di cesura, soprattutto all’interno della grande corrente salafita. È chiaro che è un punto problematico, soprattutto nel nostro normale desiderio di coesistenza multireligiosa pacifica, perché pone la questione di che rapporto avere con correnti religiose sostanzialmente irriducibili al dialogo (e costitutivamente ostili alla democrazia).

La terza precomprensione è quella, ancora nel 2015 annunciata dall’articolo di The Atlantic, di uno stato eremitico, chiuso, nel quale fosse impossibile penetrare e comprenderlo dall’interno. In realtà tutte le storie di delinquenti di mezza tacca del libro, di contrabbandi, di traffici, di repentini cambi di casacca e di schieramento dicono di confini estremamente porosi, il che stupisce rispetto a quanto poco, di questa messe di informazioni palesemente circolante anche fra gli avversari, sia giunto all’opinione pubblica occidentale attraverso i mezzi di informazione.

In realtà le stesse storie di delinquentelli di mezza tacca, così come di corruzione rampante, ipocrisia rispetto alla morale ufficiale, sete di denaro e lotte per il potere invitano anche a rendersi conto che, a fianco ai miliziani duri e puri, la guerra ha attratto anche tutto un mondo di avventurieri e lestofanti, come era ovvio attendersi.

Una categoria speciale fra questi è rappresentata dalle figure-ombra. Spesso i resoconti dei testimoni riportano una buona quantità di teorie complottiste che circolano fra gli stessi miliziani nei confronti della propria dirigenza. A parte questo, però, almeno due delle tre testimonianze principali sono abbastanza concordi nel descrivere un quadro di comando non ufficiale dello Stato Islamico incarnato in ex-ufficiali di Saddam, con forti intrecci con i servizi siriani, sauditi e degli Emirati e con un vertice segreto dell’organizzazione negli ultimi due di questi paesi. Un quadro di comando degno delle migliori strategie della tensione e, apparentemente, non scalfito minimamente dalla disfatta militare degli ultimi mesi.

L’ultimo elemento preoccupante che emerge dalla lettura è la quantità di infiltrati presenti in Europa. Può darsi che, come enuncia una delle teorie complottiste riportate, il Dawla servisse a radunare tutti insieme gli islamisti radicali della regione ed europei per poterli massacrare con comodo. Certo le perdite militari subite sono state impressionanti ma un’occhiata alle ultime pagine, dove si racconta che fine hanno fatto i vari personaggi del libro, non è rassicurante: la maggior parte di quelli che non sono morti vive sotto falsa identità un po’ dappertutto, compresa l’Europa dalla Svezia all’Italia: l’onda di riflusso della guerra in Siria potrebbe essere più difficile da gestire di quello che c’era prima. Per non parlare di quelle decine di cellule di cui ci viene raccontato l’inserimento in Europa nell’ultima parte del libro, e che non sono nemmeno dei dissociati o dei disertori, ma agenti in sonno a tutti gli effetti.

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