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L’odor di bordello

Ho visto qualche giorno fa Loro 1. È talmente irrisolto, narrativamente, che per un giudizio occorre per forza aspettare l’uscita del secondo capitolo, il che in ogni caso non è proprio un segnale beneaugurante.

Ho un po’ la sensazione di un pastrocchio narrativo. C’è una cesura piuttosto forte fra i primi due terzi del film, tutti centrati sulla corte attorno a Lui, e la seconda parte nella quale Berlusconi entra direttamente in scena; ma la sensazione non è solo legata al fatto che improvvisamente i personaggi sui quali il film ha investito tutto completamente scompaiono e la scena cambia del tutto, quasi due film in uno. C’è anche il problema che lo stile non sembra decidersi mai fra il grottesco, il realistico e l’onirico, e sembra più scelto per dare di che pensare – o fingere di pensare – al critico e al pubblico che vuole stare al gioco e darsi l’aria di quello che ci ritrova chissà che significato, pazienza se il registro utilizzato di volta in volta non serve la narrazione ma anzi la ostacola.

Detto questo, boh, tocca aspettare il secondo capitolo nel dubbio di un colpo di scena che riannodi tutti i fili e al posto del pastrocchio faccia trovare il capolavoro del grande chef.

C’è però un punto che mi ha abbastanza colpito, e che per brevità ho riassunto nel titolo di questo articolo. Questo è un blog rispettabile e la parola bordello non vi era ancora stata pronunciata, ma questa volta mi tocca.

Ora, io non ho mai visitato bordelli per la prima ed evidente ragione che li hanno chiusi prima che io nascessi. Di che cosa fossero, quindi, ho per forza un’idea mediata da racconti, prima di tutti letterari. Devo dire, ho sempre dubitato del tono a metà fra il vecchio perverso e il melenso di certi nostalgici delle case chiuse: avevo un ricordo di una frase di Montanelli sul genere e me la sono andata a cercare, scoprendo con sorpresa che era in buona compagnia, Mario Praz, Benedetto Croce, Luciano De Crescenzo, perfino Mario Soldati: «Le case erano soprattutto luoghi di dolcezza e di umanità. Le ragazze avevano toccato il fondo della realtà: ecco perché erano intelligenti e perché erano caritatevoli e gentili».

Ammazza. Posti fantastici, peccato li abbiano chiusi, e quindi non si possa più far toccare il fondo della realtà a della gente (donne) perché altra gente (uomini) possa godere di dolcezza e umanità.

Sarebbe facile partire qui con la filippica sullo sfruttamento di tante povere ragazze, che è esattamente l’approccio moralista che probabilmente porterebbe ad accusare Loro 1 di non essere impegnato socialmente, di non fare una disamina politica, di non inchiodare Berlusconi alle sue responsabilità, e così via.

Solo che Sorrentino ha scelto di fare un altro film, sul lato umano di Lui e della corte di miracoli, ed è inattaccabile a questa accusa, che mira a un bersaglio che è fuori del perimetro del film. Il problema, però, è che dentro quel perimetro manca lo squallore. Perché alla fine, e lo sappiamo da intercettazioni e testimonianze, non c’era granché di glamour e di fine in tutto l’ambaradan: era tutto piuttosto squallido. Non necessariamente orrendo, o feroce, ma squallido sì. Triste, perfino, come un lavoro. E i bordelli puzzavano: è rimasto nella memoria popolare l’idea di profumare come una cocotte o che bruciare incenso sia roba da casino: perché solo un profumo pesante poteva coprire l’accumularsi di strati su strati di di afrori di varia provenienza. E la puzza fisica è una metafora perfetta della puzza morale del tutto, con buona pace di Montanelli e Soldati.

Ho già raccontato, credo, che quando giocavo spesso a bridge ho conosciuto ragazze che uomini potentucci tenevano in pied-a-terre in Castello a propria disposizione. Non è che le picchiavano, voglio dire, o che le avessero ridotte in schiavitù: era tutto molto consensuale, magari nell’attesa di un divorzio che non sarebbe mai arrivato. Ed era anche piuttosto misero, e infelice, a partire dal fatto che un sottano riadattato in Castello non è proprio esattamente un attico con vista sulla Tour Eiffel: ecco, io ho l’impressione che la verità della vita delle persone rappresentate nel film sia molto più vicina a quello squallore, a quella tristezza, a quella miseria di prospettive di vita che alle figure perfettamente acchittate e al mondo patinato che Sorrentino mette in scena: quando Kasia Smutiniak viene presentata come una cortigiana di classe ma così di classe così di classe che niente è al pari di lei, ecco, sembra che bari.

È questa, secondo me, la polemica politica che si può imbastire sul film: non che non affronti il ventennio berlusconiano nei modi che noi riterremmo più giusti ma che, date le premesse che legittimamente si sceglie, opera un tradimento nei confronti della verità psicologica, esistenziale, reale, dei personaggi che mette in scena. È un tradimento che serve, in realtà, ad assolverli, a renderli ammirevoli, ma non è questo il problema – è anche questo, ovviamente – quanto piuttosto il fatto che tradisce noi, tentando di farci credere una storia che non è quella che abbiamo vissuto.

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