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Atleti che hanno qualcosa da dire

Seguendo un link suggerito dal sempre ottimo sito L’ultimo uomo ho scoperto The Players’ Tribune, un curioso sito di informazione sportiva diretto e fondato da Derek Jeter, un grandissimo del baseball che è già un personaggio fuori dalle righe per conto suo.

Come sito di informazione sportiva The Players’ Tribune  è particolare perché, semplicemente, non parla di sport. Casomai, parla degli sportivi. O meglio: gli sportivi parlano. Sono tutti atleti ai vertici delle loro rispettive discipline, e scrivono, o pubblicano video, o caricano podcast e così via. Secondo la filosofia della rivista, in questo modo si riduce la distanza fra gli atleti e i loro fan, che interagiscono direttamente: in realtà non sono così sicuro, nel senso che una volta che uno ha il media in mano si rivolge al pubblico senza aggettivi, non tanto al suo pubblico. Per esempio, io non sono un fan del basket in senso stretto – anche se mi piace molto – e non avevo mai sentito parlare di Jabari Parker, ala dei Milwakee Bucks: ho scoperto il sito leggendomi un suo articolo che penso tradurrò e che non parla di basket; parla di cosa voglia dire crescere nel ghetto a Chicago, essere un ragazzo di colore, amare e odiare la città, desiderare andarsene e scoprirsi alla fine a ritornare, del suo rapporto con Black lives matter e altre cose del genere.

Insomma: The players’ tribune permette a delle personalità note al pubblico di esprimersi nonostante siano atleti, nel senso che gli dà uno spazio nel quale possono parlare di quello che vogliono e non di come è andata l’ultima partita – o di come andrà la prossima.

A parte l’interesse per i singoli articoli, il sito mi ha stimolato alcune riflessioni. La prima è, banalmente, se valga la pena. È proprio necessario sapere che cosa pensano, che cosa fanno, come vivono questi atleti, solo perché sono personalità? La risposta che mi sono dato è sì, esattamente perché sono personalità che però non hanno – anche in una realtà mediatica molto diversa dalla nostra come gli Stati Uniti – lo spazio per esprimersi, se non sulla famosa partita. Non è solo il discorso di soddisfare la curiosità del pubblico: il fatto è che essendo famosi esercitano comunque una forma di leadershipquindi è corretto, in senso sociale, che si esprimano. D’altra parte in una società di comunicazione esasperata nella quale il parere del fratello della moglie dell’amante della cugina del politico di turno viene riportato in prima serata su tutte le televisioni, non si capisce perché non debba avere spazio gente che, dopotutto, lavora duramente. Per non parlare del fatto che, nell’era di Instagram e Twitter, gli atleti si esprimono già: almeno qui lo possono fare in maniera più meditata e – complessivamente – più interessante.

E quindi, in realtà, quello di The Players’ Tribune mi è sembrato un progetto piuttosto interessante e la domanda, casomai, non è perché dare spazio agli atleti? ma casomai perché non se lo prendono altre categorie?

Sarebbe interessante una, che so, Tribuna degli scienziati? Uno spazio dove studiosi e ricercatori raccontano di sé in prima persona, della loro vita, delle sfide professionali, del rapporto fra famiglia e lavoro, della competizione, delle pressione, della sensazione che col loro lavoro possono avere un impatto, fare la differenza… secondo me sarebbe interessante, no? Sarebbe un modo per finire a parlare, al fondo, di scienza, esattamente come, contraddicendo le sue premesse, alla fine è evidente che The Players’ Tribune parla di sport, esattamente di sport. Lo stesso si potrebbe dire per una Tribuna dei teatranti, o degli attori, o degli artisti. In qualche modo il dibattito sulla comunicazione di questi settori si è fermato al come renderli accessibili al pubblico televisivo, mi pare che The Players’ Tribune suggerisca che si potrebbe pensare a una accessibilità mediante forme di comunicazione sul web.

La seconda riflessione è che quelli che scrivono, che naturalmente sono comunque una frazione del vasto mondo degli atleti, sono davvero bravi. Dannatamente bravi.

Oh, ammesso che scrivano loro, naturalmente: non sarai una impresa-in-una-sola-persona con un fatturato di miliardi senza avere attorno a te uno staff, agenti e addetti stampa. E forse alcuni brani sono semplicemente delle interviste riscritte da un redattore del sito usando la prima persona singolare. E una parte delle storie raccontate vanno così dirette allo stomaco che non occorre essere grandi narratori: rookie dell’anno e nello stesso anno il cancro diagnosticato al primo figlio piccolissimo. Ma anche supposto tutto questo, moltissimi articoli sono davvero interessanti, complessi e significativi. È chiaro che viviamo in un mondo nel quale si dice che essere comunicatori consumati sia un prerequisito per giungere ai vertici dello sport, della moda o della musica, però non è esattamente così, perché non poi si vede che non tutti acquisiscono la capacità. Leggere The Players’ Tribune sembra suggerire casomai che un po’ il brodo comunicativo nel quale sono cresciuti e un po’ le esigenze della professione hanno alzato l’asticella delle competenze minime richieste a questo livello di pratica sportiva, ma che aldilà di questo ci sono una serie di personalità notevoli, di vissuti e di capacità di riflessione e di espressione che certo fanno uscire l’idea dello sportivo dallo stereotipo del tipico jock – non che quello stereotipo non sia basato su casi reali, ovviamente.

È chiaro che mi sono chiesto anche se un sito del genere si potrebbe fare in Italia. O con i calciatori. In realtà c’è un prima pagina un articolo di ter Stegen e mi sembra di aver visto Iniesta scorrendo la lista dei collaboratori, quindi possiamo escludere l’idea che certi sport producano esponenti più interessanti di altri. La mia opinione generale, prima di leggere The Players’ Tribune, è che i giocatori di hockey su ghiaccio siano incroci fra maniaci assetati di sangue e Terminator, ma dopo aver letto articoli di diversi di loro non lo penso più – o almeno, non tanto.

Eppure la sensazione è comunque – senza offesa, eh – che non ci siano tanti atleti professionisti italiani che potrebbero reggere la sfida di essere chiamati a scrivere – o parlare di fronte a una telecamera o un microfono – in maniera interessante di sé, della propria vita, della società, l’universo e tutto quanto.

Conta, probabilmente, il fatto che un certo numero – probabilmente un buon numero – di atleti professionisti americani hanno, comunque, fatto vita da universitari. Molti sono di colore, e hanno motivi che spingono alla riflessione su sé e la società. Sia la cultura universitaria – per quanto sostenuta (o sostituita) dalla borsa di studio sportiva – che la riflessione e l’autocoscienza sulla propria marginalità sociale sono dimensioni non proprio comuni in Italia.

E poi in realtà non è vero: il mio amico Edoardo, l’unico atleta professionista che ho conosciuto bene, sarebbe stato più che capace di reggere la sfida. Ed è stato ricordandomi di lui che mi sono reso conto che in realtà quello che non si nota su The Players’ Tribune – e su altri siti esteri di informazione sportiva – è la partigianeria estrema. È questo che rende strano leggere il sito: che gli atleti appaiono essere umani normali. Se li consideri così, come quelli che puoi avere conosciuto direttamente come Edoardo, è evidente che anche gli atleti italiani, essendo vivaddio esseri umani, potrebbero certamente avere cose interessanti da ricordare. È il fumo tossico del tipo fanatico, delle polemiche, della comunicazione partigiana, così spesso e acre in Italia, che tende a mascherare questa dimensione umana e a rendere impossibile pensare che anche in Italia si possa parlare di sport così.

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